Servizio Sanitario Nazionale, addio. La salute diventa roba per ricchi (di Geppe Inserra)
Servizio sanitario nazionale, addio. L’idea di una sanità uguale e garantita allo stesso modo a tutti i cittadini italiani viene liquidata dal processo di regionalismo differenziato (e selvaggio) innescato dalla proposta della Regione Veneto che prevede la devoluzione alla Regione, da parte dello Stato, di funzioni importanti, tra cui appunto la sanità.
Per bloccare questo iniquo disegno, illustri economisti, medici e meridionalisti come Gianfranco Viesti, l’oncologo Antonio Giordano, Vito Tanzi, già direttore del FMI e Pino Aprile hanno lanciato un appello che in poche settimane ha raccolto 12.000 adesioni, bollando l’iniziativa veneta come “secessione dei ricchi”.
A preoccupare non è solo il fatto che lo Stato trasferisca alle Regioni che hanno attivato il processo (il Veneto ha iniziato, ma a seguire ci sono Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, Marche, Umbria e probabilmente anche la Puglia) servizi pubblici di fondamentale importanza, ma anche i criteri con cui si propone vengano stabilite le risorse da riconoscere alle regioni per l'esercizio delle deleghe trasferite. Non solo sulla base della spesa storica consolidata (criterio comunque ingiusto, come vedremo tra poco) ma anche sulla base del cosiddetto “residuo fiscale" che è determinato dalle tasse pagate dai cittadini della regione interessata, stornando una quota consistente di quella fiscalità generale che dovrebbe essere utilizzata per i fabbisogni generali dello Stato. D'ora in avanti più si è ricchi, migliori servizi si avranno a disposizione. Per i poveri? Si vedrà.
In una recente intervista al quotidiano La Verità la ministra leghista agli Affari Regionali, Erika Stefani, dopo aver annunciato che entro il 22 ottobre prossimo, anniversario del referendum con cui Veneto e Lombardia hanno chiesto l’autonomia, presenterà la proposta di legge che riguarda il Veneto, ha gettato acqua sul fuoco delle polemiche. Secondo la ministra, le risorse necessarie per far funzionare una funzione delegata saranno calcolate “sulla base del costo storico per quel determinato servizio. Verranno trasferiti i soldi che sono spesi oggi per far funzionare i servizi che passeranno alla Regione. A saldo zero".
Ma per la Sanità non è proprio così, visto che lo stesso parametro della "spesa storica" è a dir poco opinabile e che il criterio con cui viene attualmente stabilito il riparto del Fondo Sanitario Nazionale prevede allo stato attuale meccanismi perequativi a favore delle regioni più disagiate. Che ne sarà di questi meccanismi?
Per fare un esempio concreto, nella ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale 2017, alla Regione Veneto sono toccati 8 miliardi e 835 milioni di euro, 7 milioni e 243.000 euro dei quali sono stati però devoluti ad altre regioni, sulla base dei meccanismi di compensazione sanciti dalla Conferenza Stato-Regioni (e dunque sulla base di un accordo sottoscritto dalla stessa Regione Veneto). Che ne sarà della quota di compensazione, se il meccanismo di trasferimento delle risorse alla Regioni “delegate” si limiterà a prendere atto della “spesa storica”?
Va precisato che la stessa spesa storica è tutt’altro che rispettosa verso il Mezzogiorno. Essa è infatti determinato sulla base della cosiddetta quota capitaria che non è uguale per tutti i cittadini. Uno dei parametri utilizzati per determinarla, ad esempio, è l’età media della popolazione, che è superiore al Nord rispetto al Sud, anche perché al Nord si vive più a lungo che nel Mezzogiorno. È come il cane che si morde la coda.
E non è tutto. Sul piatto della bilancia va messo anche quanto le regioni introitano (o perdono) a causa del fenomeno della mobilità sanitaria. La normativa attuale prevede che un cittadino possa farsi curare in regioni diverse da quella in cui risiede: in questo caso, però, il costo non viene sopportato dalla Regione che eroga il servizio, ma da quella di residenza, che rimborsa la Regione che presta la cura.
La Regione Veneto è (assieme a Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Provincia autonoma di Bolzano e Molise) tra quelle che vantano un saldo attivo per quanto riguarda la mobilità sanitaria: in particolare, introita da altre regioni per le cure prestate a cittadini residenti extra Veneto quasi 140 milioni di euro.
La mobilità sanitaria colpisce invece, in negativo, nell’ordine, Calabria, Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Marche, Piemonte, Liguria, Provincia autonoma di Trento, Basilicata.
La mappa disegnata dalla mobilità sanitaria mette chiaramente e drammaticamente in evidenza gli squilibri che affliggono il sistema sanitario. Squilibri destinati ad aggravarsi, quando il regionalismo differenziato diventerà un fatto compiuto.
Si stava cercando di metterci una pezza con l’introduzione del coefficiente di deprivazione, che avrebbe consentito di calcolare le quote di ripartizione del Fondo anche sulla base delle condizioni di disagio economico e sociale della popolazione residente in un certo territorio.
Lo prevedeva un emendamento al Decreto Milleproroghe, che però non è passato. Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (Fnomceo), è stato negli ultimi mesi protagonista di un’autentica battaglia per ridurre i pesanti squilibri che caratterizzano il Servizio Sanitario Nazionale, a svantaggio del Mezzogiorno, commenta così la mancata approvazione dell’emendamento: “L’applicazione del coefficiente di deprivazione all’atto della ripartizione del Fondo sanitario nazionale, avrebbe consentito di ripartire le risorse in maniera più equa, tenendo conto dei problemi delle Regioni più povere e con maggior tasso di mobilità sanitaria. Esprimiamo il nostro rammarico per non aver saputo cogliere l’opportunità di introdurre finalmente norme in grado di ridurre le disuguaglianze tra Nord e Sud, tra centro e periferia.”
Da un lato si è detto no ad un’innovazione normativa che avrebbe permesso di attenuare i gravi squilibri presenti nel sistema sanitario, dall’altro si istituisce una corsia preferenziale per il “regionalismo differenziato” che questi squilibri è destinato ad accentuare.
Insomma, il peggio deve ancora arrivare…
Geppe Inserra
Per bloccare questo iniquo disegno, illustri economisti, medici e meridionalisti come Gianfranco Viesti, l’oncologo Antonio Giordano, Vito Tanzi, già direttore del FMI e Pino Aprile hanno lanciato un appello che in poche settimane ha raccolto 12.000 adesioni, bollando l’iniziativa veneta come “secessione dei ricchi”.
A preoccupare non è solo il fatto che lo Stato trasferisca alle Regioni che hanno attivato il processo (il Veneto ha iniziato, ma a seguire ci sono Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, Marche, Umbria e probabilmente anche la Puglia) servizi pubblici di fondamentale importanza, ma anche i criteri con cui si propone vengano stabilite le risorse da riconoscere alle regioni per l'esercizio delle deleghe trasferite. Non solo sulla base della spesa storica consolidata (criterio comunque ingiusto, come vedremo tra poco) ma anche sulla base del cosiddetto “residuo fiscale" che è determinato dalle tasse pagate dai cittadini della regione interessata, stornando una quota consistente di quella fiscalità generale che dovrebbe essere utilizzata per i fabbisogni generali dello Stato. D'ora in avanti più si è ricchi, migliori servizi si avranno a disposizione. Per i poveri? Si vedrà.
In una recente intervista al quotidiano La Verità la ministra leghista agli Affari Regionali, Erika Stefani, dopo aver annunciato che entro il 22 ottobre prossimo, anniversario del referendum con cui Veneto e Lombardia hanno chiesto l’autonomia, presenterà la proposta di legge che riguarda il Veneto, ha gettato acqua sul fuoco delle polemiche. Secondo la ministra, le risorse necessarie per far funzionare una funzione delegata saranno calcolate “sulla base del costo storico per quel determinato servizio. Verranno trasferiti i soldi che sono spesi oggi per far funzionare i servizi che passeranno alla Regione. A saldo zero".
Ma per la Sanità non è proprio così, visto che lo stesso parametro della "spesa storica" è a dir poco opinabile e che il criterio con cui viene attualmente stabilito il riparto del Fondo Sanitario Nazionale prevede allo stato attuale meccanismi perequativi a favore delle regioni più disagiate. Che ne sarà di questi meccanismi?
Per fare un esempio concreto, nella ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale 2017, alla Regione Veneto sono toccati 8 miliardi e 835 milioni di euro, 7 milioni e 243.000 euro dei quali sono stati però devoluti ad altre regioni, sulla base dei meccanismi di compensazione sanciti dalla Conferenza Stato-Regioni (e dunque sulla base di un accordo sottoscritto dalla stessa Regione Veneto). Che ne sarà della quota di compensazione, se il meccanismo di trasferimento delle risorse alla Regioni “delegate” si limiterà a prendere atto della “spesa storica”?
Va precisato che la stessa spesa storica è tutt’altro che rispettosa verso il Mezzogiorno. Essa è infatti determinato sulla base della cosiddetta quota capitaria che non è uguale per tutti i cittadini. Uno dei parametri utilizzati per determinarla, ad esempio, è l’età media della popolazione, che è superiore al Nord rispetto al Sud, anche perché al Nord si vive più a lungo che nel Mezzogiorno. È come il cane che si morde la coda.
E non è tutto. Sul piatto della bilancia va messo anche quanto le regioni introitano (o perdono) a causa del fenomeno della mobilità sanitaria. La normativa attuale prevede che un cittadino possa farsi curare in regioni diverse da quella in cui risiede: in questo caso, però, il costo non viene sopportato dalla Regione che eroga il servizio, ma da quella di residenza, che rimborsa la Regione che presta la cura.
La Regione Veneto è (assieme a Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Provincia autonoma di Bolzano e Molise) tra quelle che vantano un saldo attivo per quanto riguarda la mobilità sanitaria: in particolare, introita da altre regioni per le cure prestate a cittadini residenti extra Veneto quasi 140 milioni di euro.
La mobilità sanitaria colpisce invece, in negativo, nell’ordine, Calabria, Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Sardegna, Abruzzo, Marche, Piemonte, Liguria, Provincia autonoma di Trento, Basilicata.
La mappa disegnata dalla mobilità sanitaria mette chiaramente e drammaticamente in evidenza gli squilibri che affliggono il sistema sanitario. Squilibri destinati ad aggravarsi, quando il regionalismo differenziato diventerà un fatto compiuto.
Si stava cercando di metterci una pezza con l’introduzione del coefficiente di deprivazione, che avrebbe consentito di calcolare le quote di ripartizione del Fondo anche sulla base delle condizioni di disagio economico e sociale della popolazione residente in un certo territorio.
Lo prevedeva un emendamento al Decreto Milleproroghe, che però non è passato. Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (Fnomceo), è stato negli ultimi mesi protagonista di un’autentica battaglia per ridurre i pesanti squilibri che caratterizzano il Servizio Sanitario Nazionale, a svantaggio del Mezzogiorno, commenta così la mancata approvazione dell’emendamento: “L’applicazione del coefficiente di deprivazione all’atto della ripartizione del Fondo sanitario nazionale, avrebbe consentito di ripartire le risorse in maniera più equa, tenendo conto dei problemi delle Regioni più povere e con maggior tasso di mobilità sanitaria. Esprimiamo il nostro rammarico per non aver saputo cogliere l’opportunità di introdurre finalmente norme in grado di ridurre le disuguaglianze tra Nord e Sud, tra centro e periferia.”
Da un lato si è detto no ad un’innovazione normativa che avrebbe permesso di attenuare i gravi squilibri presenti nel sistema sanitario, dall’altro si istituisce una corsia preferenziale per il “regionalismo differenziato” che questi squilibri è destinato ad accentuare.
Insomma, il peggio deve ancora arrivare…
Geppe Inserra
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