Una storia di Natale / Pane e carbone (di Alfonso Foschi)
Ringrazio molto Alfonso Foschi, docente originario di San Severo, che da tempo risiede a Genova per aver voluto regalare agli amici e ai lettori di Lettere Meridiane questo struggente racconto natalizio. Una storia di povertà, emigrazione e di solidarietà che deve farci riflettere.
Il racconto mi ha profondamente commosso. Se commuove anche voi, fate una preghiera per Mario. (g.i.)
Quando giunsi alla sua altezza, si fermò, si voltò verso di me e, timidamente fece un cenno di autostop. Ebbi qualche istante di esitazione, ma poi prevalse la pietà: feci una breve marcia indietro, raggiunsi l’uomo, aprii lo sportello e lo invitai a salire.
Il mio ospite, che da ora in poi chiameremo Mario, era un uomo sulla cinquantina, di media statura, esile e visibilmente sofferente nel corpo e nello spirito, indossava un vecchio e logoro impermeabile; sedendosi sistemò sulle ginocchia un fagotto informe e fradicio e si scusò per il fastidio che mi dava.
Incominciammo a parlare e capii subito che era un uomo del sud e la sua parlata mi sembrava familiare. Gli chiesi di dov’era e mi rispose che era pugliese, di Foggia.
“Foggia Foggia?” Lo incalzai.
“No” rispose lui “ di un paese vicino, San Severo.
San Severo! A quel nome rimasi per un istante silenzioso, la commozione mi impediva di parlare, poi, quando mi sentii pronto, dissi a Mario che io quel paese, San Severo, lo conoscevo e mi era anche molto caro perché vi ero nato 29 anni prima e poi, subito dopo la guerra, ancora bambino, trasferito a Genova con la famiglia.
La reazione di Mario dapprima fu di assoluta incredulità, poi di dubbio di fronte al mio incerto sanseverese, infine di incontenibile gioia quando gli mostrai i dati anagrafici della mia patente di guida:... nato a San Severo il 23 gennaio 1935.
A questo punto la nostra conversazione divenne più confidenziale e così seppi che Mario era un minatore che veniva dal Belgio; la sua miniera aveva chiuso e non avendo trovato altro lavoro faceva ritorno a casa. Si trovava sulla strada per Piacenza per raggiungere un amico che forse gli avrebbe procurato qualche giornata di lavoro in una fattoria perché non voleva tornare a casa con le mani in mano e proprio in prossimità del Santo Natale.
Decisi allora che quella mattina avrei “marinato” la scuola, naturalmente col permesso dei superiori, dopo aver sistemato la classe. Tranquilli e rilassati, facemmo dietrofront per Genova e, prima di arrivare a casa, Mario accettò di buon grado il nuovo programma che avevo elaborato per lui.
A Mario un bagno non bastò per liberarsi di tutte le lordure raccolte in tanti giacigli di fortuna: paglia, piume e insetti. Dopo il secondo bagno, lo shampoo ai capelli, la rasatura, gli indumenti puliti, egli aveva perso l’aspetto del cane bastonato e impaurito per riassumere quello dell’uomo.
A mia moglie, sopraggiunta anch’essa nel frattempo da scuola, presentai Mario come un mio lontano parente di passaggio a Genova per motivi di lavoro.
A tavola Mario non fece un grande onore al pranzo perché aveva lo stomaco “chiuso” per il lungo digiuno, a sera finalmente riposò in un letto pulito e al mattino ritrovò le sue povere cose sistemate in una valigetta ed una busta con un po’ di denaro, frutto di una colletta tra i miei parenti.
Mario fece ritorno a casa e in seguito seppi che proprio sotto Natale, morì di silicosi: il carbone belga gli aveva dato pane per sé e la famiglia, ma gli aveva divorato i polmoni.
Mi perdoni l’ardire Sepùlveda, se alle sue “Le rose di Atacama” affianco il mio Mario, “La rosa del Tavoliere”.
Alfonso Foschi
Il racconto mi ha profondamente commosso. Se commuove anche voi, fate una preghiera per Mario. (g.i.)
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In un primo mattino, buio e piovoso, dei primi giorni di dicembre 1964, con la mia “cinquecento” avevo da poco lasciato l’estrema periferia nord di Genova e imboccato la SS 45 per raggiungere la mia piccola scuola rurale di Olcesi, un pugno di casette in cima alia collina. Pioveva a dirotto e con tale violenza che a stento il tergicristallo riusciva a darmi brevi e intermittenti spazi di visibilità. Ad un tratto intravidi la tremula sagoma di una persona che procedeva incerta lungo il ciglio della strada; camminava lentamente, un po’ curva, per difendersi dalla pioggia che tuttavia la flagellava impietosamente.Quando giunsi alla sua altezza, si fermò, si voltò verso di me e, timidamente fece un cenno di autostop. Ebbi qualche istante di esitazione, ma poi prevalse la pietà: feci una breve marcia indietro, raggiunsi l’uomo, aprii lo sportello e lo invitai a salire.
Il mio ospite, che da ora in poi chiameremo Mario, era un uomo sulla cinquantina, di media statura, esile e visibilmente sofferente nel corpo e nello spirito, indossava un vecchio e logoro impermeabile; sedendosi sistemò sulle ginocchia un fagotto informe e fradicio e si scusò per il fastidio che mi dava.
Incominciammo a parlare e capii subito che era un uomo del sud e la sua parlata mi sembrava familiare. Gli chiesi di dov’era e mi rispose che era pugliese, di Foggia.
“Foggia Foggia?” Lo incalzai.
“No” rispose lui “ di un paese vicino, San Severo.
San Severo! A quel nome rimasi per un istante silenzioso, la commozione mi impediva di parlare, poi, quando mi sentii pronto, dissi a Mario che io quel paese, San Severo, lo conoscevo e mi era anche molto caro perché vi ero nato 29 anni prima e poi, subito dopo la guerra, ancora bambino, trasferito a Genova con la famiglia.
La reazione di Mario dapprima fu di assoluta incredulità, poi di dubbio di fronte al mio incerto sanseverese, infine di incontenibile gioia quando gli mostrai i dati anagrafici della mia patente di guida:... nato a San Severo il 23 gennaio 1935.
A questo punto la nostra conversazione divenne più confidenziale e così seppi che Mario era un minatore che veniva dal Belgio; la sua miniera aveva chiuso e non avendo trovato altro lavoro faceva ritorno a casa. Si trovava sulla strada per Piacenza per raggiungere un amico che forse gli avrebbe procurato qualche giornata di lavoro in una fattoria perché non voleva tornare a casa con le mani in mano e proprio in prossimità del Santo Natale.
Decisi allora che quella mattina avrei “marinato” la scuola, naturalmente col permesso dei superiori, dopo aver sistemato la classe. Tranquilli e rilassati, facemmo dietrofront per Genova e, prima di arrivare a casa, Mario accettò di buon grado il nuovo programma che avevo elaborato per lui.
A Mario un bagno non bastò per liberarsi di tutte le lordure raccolte in tanti giacigli di fortuna: paglia, piume e insetti. Dopo il secondo bagno, lo shampoo ai capelli, la rasatura, gli indumenti puliti, egli aveva perso l’aspetto del cane bastonato e impaurito per riassumere quello dell’uomo.
A mia moglie, sopraggiunta anch’essa nel frattempo da scuola, presentai Mario come un mio lontano parente di passaggio a Genova per motivi di lavoro.
A tavola Mario non fece un grande onore al pranzo perché aveva lo stomaco “chiuso” per il lungo digiuno, a sera finalmente riposò in un letto pulito e al mattino ritrovò le sue povere cose sistemate in una valigetta ed una busta con un po’ di denaro, frutto di una colletta tra i miei parenti.
Mario fece ritorno a casa e in seguito seppi che proprio sotto Natale, morì di silicosi: il carbone belga gli aveva dato pane per sé e la famiglia, ma gli aveva divorato i polmoni.
Mi perdoni l’ardire Sepùlveda, se alle sue “Le rose di Atacama” affianco il mio Mario, “La rosa del Tavoliere”.
Alfonso Foschi
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