I sapori della Memoria
Cultura significa, prima di tutto, amare quel che ti circonda, aderirvi, trasformarlo, venirne trasformato. Prendere quel che ti offre, per viverne, per viverlo ,per farlo vivere. Ecco perché la cucina è la prima forma di cultura.
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* * * Segnaposto
La prima volta che ho sentito parlare delle olive dolci fritte è stata ad un comizio, pensate un po'. E per giunta in termini non proprio lusinghieri. Le avrei assaggiate soltanto qualche anno dopo, grazie a mia suocera cerignolana, restandone conquistato.
Piatto tipico e contadino pugliese, le olive dolci non sono conosciutissime, ed è un peccato perché credo non ci sia nulla di più mediterraneo, avendo come ingrediente base (anzi come ingrediente esclusivo, nella sua versione più spartana) soltanto le olive e il loro olio, ovvero il frutto dell'albero che accomuna i paesi del bacino del Mediterraneo. Olio di oliva e olive formano manco a dirlo un connubio perfetto, e restituiscono un sapore impareggiabile.
Proprio ad una tale comunanza di oliveti ed ulivi si riferisce la storia che ascoltai nel comizio, ambientata non in Italia, ma in Spagna. Era una campagna elettorale degli anni Settanta, e per il Pci parlava dal palco di piazza Cavour, Giuliano Pajetta, torinese e fratello minore del più noto Giancarlo, ma con una storia incredibile alle spalle. Tanto per dire, era sopravvissuto al campo di concentramento di Mathausen.
L'oratore sapeva bene che, a Foggia come a Cerignola, bastava un qualsiasi riferimento a Peppino Di Vittorio, per incendiare la piazza e dunque non si fece pregare nel citarlo diverse volte. Ma in più aggiunse una divertente testimonianza personale. Giuliano Pajetta e il grande sindacalista di Cerignola erano stati infatti amici fraterni, avendo combattuto fianco e fianco nella guerra civile spagnola. Avevano militato entrambi (come si vede nella foto che illustra il post, tratta dall'archivio de L'Unità) come volontari nelle Brigate Internazionali che lottavano contro il fascismo franchista.
La prima volta che ho sentito parlare delle olive dolci fritte è stata ad un comizio, pensate un po'. E per giunta in termini non proprio lusinghieri. Le avrei assaggiate soltanto qualche anno dopo, grazie a mia suocera cerignolana, restandone conquistato.
Piatto tipico e contadino pugliese, le olive dolci non sono conosciutissime, ed è un peccato perché credo non ci sia nulla di più mediterraneo, avendo come ingrediente base (anzi come ingrediente esclusivo, nella sua versione più spartana) soltanto le olive e il loro olio, ovvero il frutto dell'albero che accomuna i paesi del bacino del Mediterraneo. Olio di oliva e olive formano manco a dirlo un connubio perfetto, e restituiscono un sapore impareggiabile.
Proprio ad una tale comunanza di oliveti ed ulivi si riferisce la storia che ascoltai nel comizio, ambientata non in Italia, ma in Spagna. Era una campagna elettorale degli anni Settanta, e per il Pci parlava dal palco di piazza Cavour, Giuliano Pajetta, torinese e fratello minore del più noto Giancarlo, ma con una storia incredibile alle spalle. Tanto per dire, era sopravvissuto al campo di concentramento di Mathausen.
Il rito del galluccio cominciava due o tre giorni prima di Ferragosto, quando nonno Giuseppe andava al mercato Ferrante-Aporti a comprare la bestiola che sarebbe stata sacrificata sulla tavola della festa.
Ne sceglieva una di una certa dimensione, perché quando sarebbe arrivato il momento avrebbe dovuto sfamare sei bocche. Sicché il "galluccio", vezzeggiativo che sta per gallo giovane, era il più delle volte un gallo bell'e fatto.
Giunto a casa, sistemava il volatile nella vasca da bagno, che, come s’usava a quei tempi, a tutto serviva, fuorché a fare il bagno.
Gli legava una zampa con una cordicella annodando l’altra estremità al rubinetto, in modo che potesse muoversi senza però volare via. Per me e mio fratello Attilio era un divertimento sbirciare dalla porta socchiusa del gabinetto l’espressione del povero animale, ignaro della sorte che stava per toccargli.
Ci divertiva anche dargli da mangiare: briciole di pane raffermo inzuppate in un po’ acqua. La sera della vigilia, nonno Giuseppe procedeva alla esecuzione. Dopo aver immobilizzato il galluccio tra le gambe, con una mano gli torceva il collo e con l’altra, impugnando un coltello affilato (ne avevamo uno adibito proprio a questo scopo) gli recideva la giugulare.
Noi assistevamo alla esecuzione un po’ incuriositi un po’ rattristati.
* * * Segnaposto
Sapori della memoria | Le olive dolci di Di Vittorio
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Giuseppe Di Vittorio e Giuliano Pajetta |
Piatto tipico e contadino pugliese, le olive dolci non sono conosciutissime, ed è un peccato perché credo non ci sia nulla di più mediterraneo, avendo come ingrediente base (anzi come ingrediente esclusivo, nella sua versione più spartana) soltanto le olive e il loro olio, ovvero il frutto dell'albero che accomuna i paesi del bacino del Mediterraneo. Olio di oliva e olive formano manco a dirlo un connubio perfetto, e restituiscono un sapore impareggiabile.
Proprio ad una tale comunanza di oliveti ed ulivi si riferisce la storia che ascoltai nel comizio, ambientata non in Italia, ma in Spagna. Era una campagna elettorale degli anni Settanta, e per il Pci parlava dal palco di piazza Cavour, Giuliano Pajetta, torinese e fratello minore del più noto Giancarlo, ma con una storia incredibile alle spalle. Tanto per dire, era sopravvissuto al campo di concentramento di Mathausen.

Sapori della memoria | Le mandorle atterrate, come si facevano una volta
La cucina foggiana è particolarmente varia e ricca, anche per gli antichi legami intrattenuti dal capoluogo dauno con altri territori, e in modo particolare con Napoli, che era una volta la capitale, e con l’Abruzzo, grazie alla transumanza che portava ogni anno centinaia e centinaia di pastori scendere dalle montagne abruzzesi per portare le loro greggi a svernare nel Tavoliere.
Natale è l’occasione in cui le comuni radici culinarie appulo-abruzzesi vengono alla luce, come nel caso di quello che è forse il dolce foggiano più tipico del periodo natalizio: le Mandorle atterrate (in realtà dovrebbe dirsi attorrate, come vedremo meglio più avanti), oggi diffuse in Capitanata ma anche in altre province pugliese, tradizione comune con diversi paese abruzzesi.
Oggi le Mandorle Atterrate si trovano anche nelle pasticcerie e nei bar, ma preparate in un modo che ha assai poco a che fare con quello tradizionale, più faticoso e meno industriale.
Le dosi che seguono si riferiscono a mezzo chilo di mandorle già sgusciate, che vanno preventivamente sbollentate e pelate, e quindi messe a tostare in forno su una placca appena unta d’olio, per evitare che si attacchino. La tostatura non dev’essere eccessiva, altrimenti potrebbero prendere un sapore di bruciato.
Natale è l’occasione in cui le comuni radici culinarie appulo-abruzzesi vengono alla luce, come nel caso di quello che è forse il dolce foggiano più tipico del periodo natalizio: le Mandorle atterrate (in realtà dovrebbe dirsi attorrate, come vedremo meglio più avanti), oggi diffuse in Capitanata ma anche in altre province pugliese, tradizione comune con diversi paese abruzzesi.
Oggi le Mandorle Atterrate si trovano anche nelle pasticcerie e nei bar, ma preparate in un modo che ha assai poco a che fare con quello tradizionale, più faticoso e meno industriale.
Le dosi che seguono si riferiscono a mezzo chilo di mandorle già sgusciate, che vanno preventivamente sbollentate e pelate, e quindi messe a tostare in forno su una placca appena unta d’olio, per evitare che si attacchino. La tostatura non dev’essere eccessiva, altrimenti potrebbero prendere un sapore di bruciato.
Sapori della memoria | Le olive dolci di Di Vittorio
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Giuseppe Di Vittorio e Giuliano Pajetta |
Piatto tipico e contadino pugliese, le olive dolci non sono conosciutissime, ed è un peccato perché credo non ci sia nulla di più mediterraneo, avendo come ingrediente base (anzi come ingrediente esclusivo, nella sua versione più spartana) soltanto le olive e il loro olio, ovvero il frutto dell'albero che accomuna i paesi del bacino del Mediterraneo. Olio di oliva e olive formano manco a dirlo un connubio perfetto, e restituiscono un sapore impareggiabile.
Proprio ad una tale comunanza di oliveti ed ulivi si riferisce la storia che ascoltai nel comizio, ambientata non in Italia, ma in Spagna. Era una campagna elettorale degli anni Settanta, e per il Pci parlava dal palco di piazza Cavour, Giuliano Pajetta, torinese e fratello minore del più noto Giancarlo, ma con una storia incredibile alle spalle. Tanto per dire, era sopravvissuto al campo di concentramento di Mathausen.
I sapori della memoria | Il pranzo di Natale non è completo, senza l'insalata di rinforzo
L’insalata di rinforzo ha un tocco di genialità, già dal nome. È una portata d’obbligo, a Napoli, nel menù della vigilia di Natale, ma anche dei giorni successivi.
La si preparava anche a casa mia, non saprei dire se perché in qualche modo s’usa anche a Foggia, oppure, più verosimilmente, per le numerose contaminazioni partenopee presenti nella mia famiglia, per parte di padre.
A me che da ragazzo non andavo matto per gli ortaggi e la verdura, quell'insalata era uno strappo alla regola. Mi gustava un sacco quel tripudio insolito ed azzardato di sapori e di colori che compariva in tavola proprio quando il pranzo interminabile della vigilia sembrava volgere al termine.
Di qui il nome, “di rinforzo” quasi ad esorcizzare il rischio di alzarsi da tavola ancora non sazi, e dunque prevenendo il rimpianto d’un cenone troppo frugale.
È assai più d’un contorno, ed assai più d’una insalata: ha una sua dignità di pietanza che pare, anticamente, servisse ad irrobustire i cenoni a base di magro.
C’è chi dà all’etimo anche un altra interpretazione: a Napoli l’insalata di rinforzo non si serve soltanto alla vigilia, ma accompagna tutta la kermesse gastronomica natalizia, almeno fino a S.Stefano. Quel che avanza un giorno, viene servito il giorno successivo, opportunamente integrato (ovvero “rinforzato”) da altri ingredienti.
La si preparava anche a casa mia, non saprei dire se perché in qualche modo s’usa anche a Foggia, oppure, più verosimilmente, per le numerose contaminazioni partenopee presenti nella mia famiglia, per parte di padre.
A me che da ragazzo non andavo matto per gli ortaggi e la verdura, quell'insalata era uno strappo alla regola. Mi gustava un sacco quel tripudio insolito ed azzardato di sapori e di colori che compariva in tavola proprio quando il pranzo interminabile della vigilia sembrava volgere al termine.
Di qui il nome, “di rinforzo” quasi ad esorcizzare il rischio di alzarsi da tavola ancora non sazi, e dunque prevenendo il rimpianto d’un cenone troppo frugale.
È assai più d’un contorno, ed assai più d’una insalata: ha una sua dignità di pietanza che pare, anticamente, servisse ad irrobustire i cenoni a base di magro.
C’è chi dà all’etimo anche un altra interpretazione: a Napoli l’insalata di rinforzo non si serve soltanto alla vigilia, ma accompagna tutta la kermesse gastronomica natalizia, almeno fino a S.Stefano. Quel che avanza un giorno, viene servito il giorno successivo, opportunamente integrato (ovvero “rinforzato”) da altri ingredienti.
La monumentale Zuppetta di San Severo, il pancotto di Natale
Ci sono piatti legati indissolubilmente all’identità più profonda di una comunità, che rappresentano qualcosa di più di una tradizione, perché si trasformano in un tratto comune, in un forte momento di condivisione.
Uno di questi è sicuramente la Zuppetta che si prepara a San Severo, il giorno di Natale. Per leggere tutto, cliccare qui. Come dice la mia cara amica e collega, Cristina Mundi: “a San Severo esiste una sola certezza: la Zuppetta. Poi possiamo parlare di tutto, le bombe, le estorsioni, l’Amministrazione che piace o non piace. Ma la Zuppetta, regina del nostro Natale, unisce. Vessati e vessatori, amministratori e amministrati, amati e detestati, guardie e ladri, se sono di San Severo mangiano la Zuppetta il 25 dicembre. E quel giorno, una volta all’anno, c’è un’unione. L’ho sempre pensata così. Ogni volta che mi siedo a tavola a Natale, penso e spero che i miei concittadini provino quello che provo io. La condivisione. Una grande Comunità che sta vivendo lo stesso momento. Tutti, e dico tutti, siamo lì a fare la stessa cosa."
Ne ho sentito parlare per la prima volta lo scorso anno, ed è bastata qualche ricerca e qualche telefonata ad amici perché mi rendessi conto che il giorno di Natale nella cittadina dell’Alto Tavoliere la Zuppetta la mangiano proprio tutti, se no, non è Natale.
Uno di questi è sicuramente la Zuppetta che si prepara a San Severo, il giorno di Natale. Per leggere tutto, cliccare qui. Come dice la mia cara amica e collega, Cristina Mundi: “a San Severo esiste una sola certezza: la Zuppetta. Poi possiamo parlare di tutto, le bombe, le estorsioni, l’Amministrazione che piace o non piace. Ma la Zuppetta, regina del nostro Natale, unisce. Vessati e vessatori, amministratori e amministrati, amati e detestati, guardie e ladri, se sono di San Severo mangiano la Zuppetta il 25 dicembre. E quel giorno, una volta all’anno, c’è un’unione. L’ho sempre pensata così. Ogni volta che mi siedo a tavola a Natale, penso e spero che i miei concittadini provino quello che provo io. La condivisione. Una grande Comunità che sta vivendo lo stesso momento. Tutti, e dico tutti, siamo lì a fare la stessa cosa."
Ne ho sentito parlare per la prima volta lo scorso anno, ed è bastata qualche ricerca e qualche telefonata ad amici perché mi rendessi conto che il giorno di Natale nella cittadina dell’Alto Tavoliere la Zuppetta la mangiano proprio tutti, se no, non è Natale.
Le pettole di Natale
Come conciliare la pratica del digiuno religioso, che prescrive di non consumare altro che pane ed acqua, con lo spirito della festa che postula invece prelibatezze in tavola?
La cultura contadina e bracciantile pugliese ha dato a questo dilemma una risposta geniale: le pettole. Gli ingredienti più poveri per antonomasia - la pasta di pane e l’ acqua - vengono utilizzati per confezionare il cibi del “digiuno” ma sapientemente insaporito e reso gustoso dalla ingegnosa tecnica di preparazione e di cottura.
La pratica del digiuno in occasione di certe feste, come l’Immacolata e la vigilia di Natale, è nata proprio in Puglia, in quel di Manduria, nel 1628, e successivamente recepita e ratificata dalle gerarchie ecclesiastiche con una bolla di papa Pio IX, nel 1853. Per leggere tutto, cliccare qui.
La cultura contadina e bracciantile pugliese ha dato a questo dilemma una risposta geniale: le pettole. Gli ingredienti più poveri per antonomasia - la pasta di pane e l’ acqua - vengono utilizzati per confezionare il cibi del “digiuno” ma sapientemente insaporito e reso gustoso dalla ingegnosa tecnica di preparazione e di cottura.
La pratica del digiuno in occasione di certe feste, come l’Immacolata e la vigilia di Natale, è nata proprio in Puglia, in quel di Manduria, nel 1628, e successivamente recepita e ratificata dalle gerarchie ecclesiastiche con una bolla di papa Pio IX, nel 1853. Per leggere tutto, cliccare qui.
Oggi si pensa che mangiare soltanto le pettole all’ora di pranzo, il giorno della vigilia di Natale abbia lo scopo di "mantenersi leggeri" in vista dell’abbuffata serale. Ma non è così: l'usanza ha radici remote: faceva parte, appunto, della pratica del digiuno che imponeva ai penitenti di mangiare a pranzo soltanto pane ed acqua. Fino a quando a qualcuno non venne l’idea di aggiungervi un tocco di sapore.
I sapori della memoria | Capitone, cibo imperiale (di Geppe Inserra)
In una terra, come la Capitanata, che è da sempre crocevia di genti, culture e dunque costumi e tradizioni diverse, anche la gastronomia è un melting pot in cui si incontrano piatti di diversa origine ed estrazione.
Come il capitone fritto, pietanza d'obbligo nel cenone della vigilia di Natale, che Foggia condivide con Napoli, e chissà che questa comunanza non tragga origine dal fatto che la femmina dell'anguilla è molto apprezzata nella città partenopea, che era una volta la capitale del Regno delle Due Sicilie, ma veniva prodotta in terra di Capitanata, nella laguna di Lesina.
A voler essere cavillosi, però, si potrebbe osservare che, se qualcuno ha importato la tradizione dall'altro, sono stati i napoletani, e quando capitale era anche un po' Foggia, perché il primo estimatore del capitone fu l'imperatore Federico II di Svevia, che lo inserì nel menù del pranzo, munifico e pantagruelico, offerto in occasione del Colloquium generale (l'assemblea plenaria dei funzionari regi) convocata da Federico l'8 aprile 1240 per presentare le Novae Constitutiones.
Come il capitone fritto, pietanza d'obbligo nel cenone della vigilia di Natale, che Foggia condivide con Napoli, e chissà che questa comunanza non tragga origine dal fatto che la femmina dell'anguilla è molto apprezzata nella città partenopea, che era una volta la capitale del Regno delle Due Sicilie, ma veniva prodotta in terra di Capitanata, nella laguna di Lesina.
A voler essere cavillosi, però, si potrebbe osservare che, se qualcuno ha importato la tradizione dall'altro, sono stati i napoletani, e quando capitale era anche un po' Foggia, perché il primo estimatore del capitone fu l'imperatore Federico II di Svevia, che lo inserì nel menù del pranzo, munifico e pantagruelico, offerto in occasione del Colloquium generale (l'assemblea plenaria dei funzionari regi) convocata da Federico l'8 aprile 1240 per presentare le Novae Constitutiones.
I sapori della memoria \ Pizza Sette Sfoglie, quando un dolce diventa arte
La Pizza Sette sfoglie ha una peculiarità che la rende unica, impareggiabile, nel pur variegato panorama dei dolci natalizi pugliesi e meridionali. Devi farla con le mani, con il cuore, con la pazienza di chi vuole fare le cose per bene.
Non è ancora stata creata la macchina che possa produrla industrialmente. Così come non è stato inventato, e probabilmente non lo sarà mai, un robot che possa sostituirsi alle mani delle donne di Cerignola o dei pasticcieri artigianali.
Il panettone puoi anche sfornarlo di serie e produrlo in fabbrica. La Pizza sette sfoglie, no. Ogni pezzo è qualcosa di unico ed irripetibile. Ha la sua forma, il suo colore, il suo profumo.
Non è ancora stata creata la macchina che possa produrla industrialmente. Così come non è stato inventato, e probabilmente non lo sarà mai, un robot che possa sostituirsi alle mani delle donne di Cerignola o dei pasticcieri artigianali.
Il panettone puoi anche sfornarlo di serie e produrlo in fabbrica. La Pizza sette sfoglie, no. Ogni pezzo è qualcosa di unico ed irripetibile. Ha la sua forma, il suo colore, il suo profumo.
Il rito del galluccio (di Geppe Inserra)
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Il mercato Ferrante Aporti |
Ne sceglieva una di una certa dimensione, perché quando sarebbe arrivato il momento avrebbe dovuto sfamare sei bocche. Sicché il "galluccio", vezzeggiativo che sta per gallo giovane, era il più delle volte un gallo bell'e fatto.
Giunto a casa, sistemava il volatile nella vasca da bagno, che, come s’usava a quei tempi, a tutto serviva, fuorché a fare il bagno.
Gli legava una zampa con una cordicella annodando l’altra estremità al rubinetto, in modo che potesse muoversi senza però volare via. Per me e mio fratello Attilio era un divertimento sbirciare dalla porta socchiusa del gabinetto l’espressione del povero animale, ignaro della sorte che stava per toccargli.
Ci divertiva anche dargli da mangiare: briciole di pane raffermo inzuppate in un po’ acqua. La sera della vigilia, nonno Giuseppe procedeva alla esecuzione. Dopo aver immobilizzato il galluccio tra le gambe, con una mano gli torceva il collo e con l’altra, impugnando un coltello affilato (ne avevamo uno adibito proprio a questo scopo) gli recideva la giugulare.
Noi assistevamo alla esecuzione un po’ incuriositi un po’ rattristati.
I sapori della memoria | Cartellate, inno natalizio pugliese e antidoto ai fast food
Le cartellate sono per la Puglia quel che il panettone è per Milano. Senza questi dolci in tavola, non è Natale.
Le cartellate hanno tuttavia un’origine assai più remota del dolce lombardo, quasi mitica. Secondo quanto scrive Riccardo Paradiso in un dotto articolo per la rivista di vino e cultura on line Lavinium, si tratterebbe di un cibo rituale, la cui raffigurazione comparirebbe per la prima volta in una pittura rupestre rinvenuta nei pressi di Bari, risalente addirittura al VI secolo a.C. in cui viene rappresentata la preparazione di un dolce assai simile, che veniva offerto in sacrificio a Demetra, dea della terra, durante i misteri Eleusini.
Com’è spesso accaduto nella transizione da paganesimo a cristianesimo, la tradizione cattolica si sarebbe successivamente sovrapposta e le cartellate sarebbero divenute frittelle rituali offerte alla Madonna, per invocarne l’aiuto per la buona riuscita dei raccolti. Secondo altre interpretazioni, la loro forma particolare evocherebbe l'aureola di Gesù Bambino.
Le cartellate hanno tuttavia un’origine assai più remota del dolce lombardo, quasi mitica. Secondo quanto scrive Riccardo Paradiso in un dotto articolo per la rivista di vino e cultura on line Lavinium, si tratterebbe di un cibo rituale, la cui raffigurazione comparirebbe per la prima volta in una pittura rupestre rinvenuta nei pressi di Bari, risalente addirittura al VI secolo a.C. in cui viene rappresentata la preparazione di un dolce assai simile, che veniva offerto in sacrificio a Demetra, dea della terra, durante i misteri Eleusini.
Com’è spesso accaduto nella transizione da paganesimo a cristianesimo, la tradizione cattolica si sarebbe successivamente sovrapposta e le cartellate sarebbero divenute frittelle rituali offerte alla Madonna, per invocarne l’aiuto per la buona riuscita dei raccolti. Secondo altre interpretazioni, la loro forma particolare evocherebbe l'aureola di Gesù Bambino.
I sapori della memoria | I cuculi fritti della Bambinella
Ipermercati e grandi magazzini hanno già acceso le luminarie natalizie. E gli opinionisti sostengono che la progressiva anticipazione delle feste natalizie è l’ennesimo dazio da pagare alla civiltà dei consumi. Di questo passo, finirà che vedremo in giro le strenne e la slitta di Babbo Natale subito dopo Ferragosto.
In realtà, questo desiderio di anticipare l’atmosfera natalizia è presente anche in culture e civiltà tutt’altro che consumistiche, come quella contadina e bracciantile, che avvolge le nostre radici.
Accade a Cerignola, dove si entra nel tempo del Natale dal 21 novembre, festa della Bambinella, che coincide, nella tradizione della Chiesa cattolica, con la commemorazione della presentazione di Maria al Tempio, che celebra il giorno in cui i genitori portarono nel tempio Maria ancora bambina (aveva tre anni) consacrandola a Dio.
In realtà, questo desiderio di anticipare l’atmosfera natalizia è presente anche in culture e civiltà tutt’altro che consumistiche, come quella contadina e bracciantile, che avvolge le nostre radici.
Accade a Cerignola, dove si entra nel tempo del Natale dal 21 novembre, festa della Bambinella, che coincide, nella tradizione della Chiesa cattolica, con la commemorazione della presentazione di Maria al Tempio, che celebra il giorno in cui i genitori portarono nel tempio Maria ancora bambina (aveva tre anni) consacrandola a Dio.
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