L'Italia è finita, il Sud verso la resistenza (di Michele Eugenio Di Carlo)
“L'Italia è finita” è il titolo che Pino Aprile ha dato al suo ultimo libro in via di pubblicazione.
Da lunedì 22 ottobre, l’Italia non esisterà più e questo crimine sta avvenendo nel silenzio generale, nonostante fior di economisti, docenti universitari, storici, scrittori, giornalisti, imprenditori, intellettuali, abbiano promosso un’iniziativa popolare contro il regionalismo differenziato.
Il 22 ottobre la ministra leghista Erica Stefani, su mandato del governatore veneto Luca Zaia e con il consenso pieno non solo della Lega, ma dell’intero arco dei partiti che contano nelle regioni del nord, presenterà un disegno di legge sull’autonomia del Veneto, sostenuta – non vi potevano essere dubbi – dal vicepremier Matteo Salvini.
Il fatto stesso che al Veneto – ma in seguito alla Lombardia ed all’Emilia Romagna – si permetta di avere rapporti con lo Stato come fosse un altro Stato, mettendo in secondo piano il Parlamento, attesta in maniera chiara che l’Italia, mai davvero nata, è davvero finita.
E che i partiti al governo non scherzino affatto, sostenuti fino a prova contraria dall’opposizione, lo ricorda l’attivista meridionalista salentino Crocifisso Aloisi, quando ci comunica quanto scritto a pagina 112 del DEF 2018: “Autonomia differenziata. Una priorità è costituita dall’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione concernente l’attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia alle Regioni a statuto ordinario. Sulla questione è già stato avviato un percorso con tre Regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) nel 2017 e nei primi mesi del 2018. Si tratta, quindi, di portare a compimento l’attuazione di disposizioni così rilevanti per il sistema delle autonomie territoriali del nostro Paese.”
Eppure Gianfranco Viesti, noto docente di economia dell’Università di Bari, nonché primo promotore della petizione popolare contro la cosiddetta “secessione dei ricchi” (se non l'avete sottoscritta, potete farlo cliccando qui), il 3 maggio di quest’anno, presso la Casa della Cultura di Milano aveva fornito seri elementi di riflessione e tesi per favorire una discussione non più rinviabile e che oggi scopriamo essere stata addirittura del tutto ignorata, evidentemente non gradita agli ambienti che contano e che decidono.
Nella sua relazione Viesti riaffermava dati chiarissimi e incontestabili: nell’ultimo decennio l’Italia, in forte declino, ha perso posizioni rispetto a diverse aree d’Europa e ha allargato la frattura tra il sud e il centro-nord a livello demografico ed economico. Frattura che ha inciso profondamente sul piano dell’occupazione, del tenore di vita, dei servizi e delle strutture a disposizione dei meridionali. Infatti, le ultime stime riportano una disoccupazione assestata sotto il 7% al nord, mentre al Sud si aggira intorno al 20 % con punte impressionanti del 30% come ad esempio in Capitanata, dove più di un giovane su due non lavora e non studia.
Viesti aveva elencato le statistiche sui tassi di crescita dell’economia europea del XXI secolo: un Italia cresciuta di solo l’ 1% contro il 23% dell’Unione Europea, il 18% dell’area euro, il 38% dell’area non euro; paesi dell’est balzati in avanti e paesi del sud-Europa in caduta libera. E con una divergenza italiana sostanziale: il centro-nord cresciuto del 3%, il sud crollato del 7% e che ha perso nell’ultimo decennio 10 punti di PIL.
Come spesso abbiamo denunciato da meridionalisti, precise e individuabili sono le scelte di politica governativa che hanno la responsabilità di questo disastro annunciato, ampiamente prevedibile, che ha portato il Mezzogiorno al limite della desertificazione sociale ed economica.
Nell’ultimo decennio, la differenza dei livelli di reddito interni all’Italia si è accentuata e ha colpito le fasce deboli e povere della popolazione, in particolare quelle residenti al sud. Questo è uno scenario economico dovuto a scelte politiche che persistono dagli anni Novanta e che il regionalismo differenziato, già in atto da 20 anni, ha portato alle estreme conseguenze.
Anche l’ultima manovra redistributiva, quella del governo Renzi, ha inciso molto più al Nord che al Sud, dove i veri poveri, i disoccupati, i lavoratori non dipendenti, non hanno usufruito di alcun beneficio.
Il servizio sanitario del paese è diventato duale: il sud ha vissuto drammaticamente la riduzione delle sue strutture sanitarie e la restrizione della loro efficienza lungo l’asse della vergognosa e umiliante migrazione sanitaria in direttrice nord, fenomeno accompagnato da un flusso miliardario di denaro pubblico e privato da sud verso nord.
Non sarebbe stato il caso di potenziare e rendere efficienti le strutture al sud per evitare l’indecoroso flusso migratorio di natura sanitaria?
No, sicuramente no, dato che la volontà politica dominante seguiva l’obiettivo della secessione fiscale, sociale e civile. No, se le nuove politiche sull’ autonomia regionale a geometria variabile sono nei fatti impostate proprio a questo fine: ridurre i livelli essenziali di assistenza alle regioni povere e potenziarle a quelle ricche che tratterranno il 90% delle tasse versate sul proprio territorio, contro ogni norma costituzionale.
Nel sistema universitario sono state adottate, non da oggi, politiche esplicite di smantellamento delle università del sud che anche in questo caso alimentano migrazioni studentesche e spostamento di risorse con danni ingenti per l’economia meridionale.
Inoltre, i fondi nazionali per la coesione interna sono stati decisamente ridotti, in particolare nell’ultima legislatura, visto che la spesa in conto capitale per il Mezzogiorno è scesa da circa 20 miliardi a pochi spiccioli. Lo stesso aumento ripetuto dell’IVA ha penalizzato soprattutto i poveri, che sono triplicati nel Mezzogiorno.
L’aver costretto poi regioni e comuni ad aumentare la tassazione locale ha comportato un ulteriore peggioramento del tenore di vita, essendo noto che il reddito familiare sia notevolmente inferiore proprio nel Mezzogiorno.
Per il Sud le ultime elezioni del 4 marzo hanno davvero rappresentato la vendetta «dei luoghi che non contano» o, secondo un’altra espressione, l’autentica «rabbia dovuta all’umiliazione» di chi si è sentito a ragion veduta totalmente estraneo al vecchio sistema politico e al di fuori dei processi evolutivi della nazione. Ma il Sud non aveva fatto i conti con il disegno di legge che verrà approvato il 22 ottobre, ignorato dai media, e che arriva all’approdo mentre i cittadini sono abilmente distratti da notizie riguardanti fatti del tutto secondari rispetto al destino che la Nazione si sta dando.
D’altronde, i media nazionali, privati e pubblici, hanno decisamente contribuito alla percezione negativa della società meridionale e, quindi, favorito le politiche di abbandono. Infatti, i docenti di sociologia dei processi comunicativi presso l’Università del Salento, Stefano Cristante e Valeria Cremonesini, hanno statisticamente accertato che il TG1 della RAI, ad esempio, negli ultimi 35 anni ha dedicato alle notizie del Mezzogiorno solo il 9% delle notizie nazionali, quasi solo per parlare di cronaca, criminalità, malasanità, meteo. Stesso discorso per il Corriere della Sera e la Repubblica. I più importanti e qualificati media italiani si sono impegnati sistematicamente nel mettere in evidenza i mali del Sud, ignorando regolarmente gli estesi e avanzati processi culturali nel mondo dell’arte, della musica, del cinema, della cultura in generale. Questo ed altro ha profondamente inciso nelle decisioni, fino a poter pensare che l’Italia possa essere mantenuta in vita dividendola in cittadini con diritti, servizi e strutture e cittadini senza diritti, servizi e strutture.
Forse non è stato previsto che dal 22 ottobre, approvato o meno il disegno di legge, il Sud, affrancato da vincolo etici e culturali, inizierà un lungo processo di resistenza verso un futuro che non potrà mai essere peggiore di quello attuale.
Michele Eugenio Di Carlo
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