Le passioni tristi (di Marcello Colopi)


Sociologo, attore, regista, impegnato nel "sociale" (è responsabile dello sportello immigrazione “Stefano Fumarulo” che opera a Cerignola e presidente della consulta delle politiche migratorie del comune di Cerignola), Marcello Colopi collabora da qualche settimana con Lettere Meridiane regalando ad amici e lettori riflessioni fuori dall'ordinario, ma sempre acute e pungenti, in un'epoca in cui il pensiero ed il suo libero esercizio stanno diventando merce sempre più rara. 
L'articolo di oggi, sulle "passioni tristi" è particolarmente rivelatore delle corde umane, culturali e filosofiche dell'amico Marcello. Leggetelo (e rileggetelo). Ne vale veramente la pena. (g.i.)
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Mi è capitato tra le mani un articolo di Miguel Benasayag, psicoterapeuta argentino che si è accorto che, i suoi pazienti sono persone le cui sofferenze non hanno una vera e propria origine psicologica, ma riflettono la tristezza diffusa che caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà. Da questa riflessione è nato un saggio bellissimo “L' epoca delle passioni tristi” (edizione Feltrinelli ) . 
Vivere in un epoca di passioni tristi significa, avere paura del futuro, anzi, quando il futuro apre le sue porte , lo fa solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza, inquietudine, allora «il terribile è già accaduto», perché le iniziative si spengono, le speranze appaiono vuote, la demotivazione cresce, l' energia vitale implode. Se trasliano la riflessione dal campo psicoterapeutico a quello sociopolitico potremmo dire che esiste nella prassi della cultura occidentale l’incapacità di produrre una critica reale alle dinamiche in atto. Questa assenza culturale non fa altro che rendere il presente sociale ancora più angosciante e minaccioso. 
La nostra società ha prodotto l’ ideologia della crisi e l ’ideologia dell’emergenza”, che si è insinuata a ogni livello, dallo spazio pubblico alle sfere più intime e private, in sostanza viviamo in un mondo dove si è passati “ dal desiderio alla minaccia”. 

Già Spinoza ci diceva che la nostra non è più l’epoca dell’entusiasmo per i “segni prognostici” dell’avvenire bensì l’epoca del ripiegamento e dell’implosione delle aspettative. Diciamola tutta: viviamo un epoca di passioni tristi perché siamo diventati incapaci di analisi critiche e di visoni “utopistiche e di speranza”. Il termine “crisi” sembra essere una costante della nostra vita individuale e sociale: crisi dei valori, crisi delle istituzioni, dell’individuo, della famiglia, della ragione, crisi adolescenziale, di mezza età e via dicendo. Parafrasando Lapalisse si potrebbe ben dire che “tutte queste crisi ti mettono, appunto, in crisi”. In ciò appare difficile immaginare una svolta collettiva e di comunità. L’io predomina sul Noi e l’incertezza e l’ansia sono per propria natura sentimenti soggettivi che diventano stati d’animo sociale. Quando il presente è vissuto sempre più nella dimensione dell’emergenza, dell’incertezza, proporre una via di uscita o di svolta diventa quasi impossibile. L’epoca delle passioni tristi coltiva il germe dell’autoritarismo, l’imposizione, l’obbligo, ed il futuro diventa una minaccia. Le passioni tristi coltivano il terreno della paura il senso di chiusura personale e sociale; senza alcuna via di scampo affidiamo la nostra storia personale e collettiva ad un “psicoterapeuta” politico che ci prospetta un futuro sereno senza altri intorno a noi. Circondati solo da chi non ci fa paura. In sostanza un mondo di simili, omologati, che danno una sicurezza, possibilmente vestiti alla stessa maniera ( non a caso le dittature si nutrono di divise) 

Il modo che abbiamo per combattere le passioni tristi è quello di dar vita alla “ passione” .
Una passione è un “sentimento molto forte, capace di dominare completamente una persona”. Essa genera un coinvolgimento emotivo. La Treccani ce lo illustra bene:
Passione è riconducibile sia al participio perfetto del verbo latino pati, passus, che significa letteralmente sofferto, sia al greco πάθος (pathos), che racchiude anch’esso il senso della sofferenza, ma indica inoltre una forte emozione.
Le passioni sono emozioni. Le sentiamo dentro. Possono durare una vita o pochi giorni. Rimanere sempre le stesse o cambiare nel tempo. Sono la nostra reazione alla vita nel dato momento in cui essa ci consuma.
Se dunque le passioni sono una conseguenza della vita, vivere secondo le proprie passioni è un mezzo paradosso, perché non puoi conoscerle prima che esse si manifestino. Puoi, tutt’al più, dedicarti a quello che ti ha appassionato nel passato. Senza alcuna certezza che ti coinvolga allo stesso modo nel futuro. Il nostro lavoro ed il nostro impegno dev’essere quello di appassionare alla vita; facendo questo nell’unico modo possibile: vivere una vita di passione. Alla fine gli “ altri” che osservano guardano questo: la testimonianza della tua vita in relazione alle passioni forti che l’accompagnano. Non ci sono altri parametri. Di fronte ad un mondo di passioni tristi, piene di rabbia, di scontro, di maldicenza e di pensiero unico bisogna opporre una vita di passioni vive fatte di solidarietà, universalismo di visioni ideali e utopistiche. In sostanza tornare ad essere ( o continuare ad essere) ribelli.
I ribelli sono l’archetipo degli uomini che rifiutano e combattono con passione e idealità “ le passioni tristi”. Sono coloro che disturbano, coloro di cui i guardiani del pensiero unico hanno deciso di non parlare; se non sono imprigionati, sono messi al bando. Il ribelle, anche in prigione, continua ad essere un ribelle. Ecco perché se può dirsi perdente, non può mai dirsi vinto. Non sempre i ribelli possono cambiare il mondo. Ma mai il mondo potrà cambiare i ribelli. Il ribelle può essere attivo o contemplativo, uomo di cultura o azione. Sul piano strategico, può essere leone o volpe, quercia o canna. Ci sono ribelli di ogni sorta, e ciò che hanno in comune è una certa capacità di dire no. Il ribelle è colui che non cede, colui che rifiuta, colui che dice: non voglio cazzo non voglio!
È colui che disdegna ciò che cercano gli altri: gli onori, gli interessi, i privilegi, il riconoscimento sociale. Il ribelle si sente straniero al mondo che abita, ma senza mai smettere di volerlo abitare. Il ribelle e la ribellione è l’unico antidoto che abbiamo per curarci dalla malattia delle passioni tristi. 
Il ribelle è innanzitutto mobile. Mobilita il pensiero, e fa uso di un pensiero mobile. Non è soldato ma partigiano. Non resta dietro il fronte ma sa attraversare tutti i fronti con gli strumenti che la natura, l’intelletto o l’esperienza gli hanno donato. Che Iddio benedica tutti i ribelli perché è grazie a loro che possiamo riprenderci il gusto della ribellione e dell’utopia. Si , dell’utopia perché come diceva Fabrizio De Andre ( quanto mi manca) “Penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passione, senza slanci, beh, sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura.”

Marcello Colopi 

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