Caporali (di Marcello Colopi)
Marcello Colopi, sociologo, attore e regista di Cerignola contribuisce da qualche settimana a Lettere Meridiane, con articoli "fuori dal coro". Le sue tesi spiazzanti accendono barlumi di pensiero critico in una stagione culturale che sembra aver perso la voglia e la capacità di riflettere. Oggi, però, Marcello si supera. Caporali è un articolo scritto in un certo senso dal di dentro del drammatico fenomeno. Nella sua Cerignola, Colopi si occupa direttamente dei problemi connessi all'accoglienza e all'immigrazione, quale responsabile dello sportello immigrazione “Stefano Fumarulo” e presidente della consulta delle politiche migratorie del comune. La riflessione e la narrazione "dal di dentro" del fenomeno del caporalato offrono originali spunti di riflessione, confermando che le cose raramente sono come sembrano, e che sotto l'apparenza c'è un mondo da scoprire. Mi sembra infine molto pertinente il richiamo alla "necessità" del sindacato e del suo ruolo di aggregazione e di controllo che taluni vorrebbero ridimensionare o addirittura sostituire con sbrigativi strumenti di democrazia digitale. La partecipazione è il sale della democrazia, della legalità, del vivere civile. Buona lettura. (g.i.)
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Caporali.
Sono cresciuto in una terra di braccianti e di caporali. Il caporalato è piaga antica, però con delle differenze sostanziali tra il caporalato del passato e quello dei giorni nostri. Quest’ultimo si è adeguato e adattato ad alcuni radicali processi sociali in atto e ha prodotto in molti casi una degenerazione dello sfruttamento in schiavismo. Anche perché c’è una sostanziale differenza tra i poveri braccianti difesi da Di Vittorio ed i braccianti di oggi, spesso migranti vulnerabili ed invisibili. Lo sfruttamento è lo stesso e in alcuni casi è peggiore. Una sostanziale differenza con il passato è che i “cafoni” condividevano con il caporale la medesima lingua, la stessa città e lo stesso dialetto. Seppur schierati su versanti contrapposti, appartenevano allo stesso paese, quindi venivano a stabilirsi con il caporale e con il proprietario terriero dei rapporti di forza codificati.
Oggi è profondamente diverso. I braccianti stranieri, soprattutto quelli stagionali, vivono le nostre campagne come una “terra di nessuno”. Non hanno niente a che spartire con una terra di cui non condividono la lingua, non conoscono le leggi scritte e quelle non scritte. Soprattutto quando si insediano nelle borgate e nei casolari intorno ai paesi. Spesso, per il lavoro che faccio ne incontro tanti. Sperduti nei casolari di campagna. Mi sono convinto che c’è una distanza siderale: ogni chilometro ne vale cento; ed è proprio questa estraniazione a generare la profonda vulnerabilità che alimenta lo sfruttamento più crudo, lo sfruttamento peggiore che un uomo possa vivere, non solo in ambito lavorativo ma soprattutto in ambito sociale.
La seconda è più grande differenza con il passato è che oggi il caporalato è organizzato in una fitta rete di capi e sottocapi che spesso sono in rapporto tra di loro e che gestiscono molti campi e molta manodopera. E’ una rete di sfruttamento organizzata che va dal lavoro all’accoglienza ai pasti ai trasporti. Ed ognuno di questi passaggi ha un costo. Ecco la grande differenza con il passato: oggi gli ambiti di sfruttamento, minaccia e ricatto sembrano essersi ampliati, sono diventati sempre più capillari nelle varie sfere della vita quotidiana dei lavoratori agricoli, che dipendono in tutto e per tutto dai caporali che non si occupano solo del lavoro ma sviluppano un perverso “ welfare assistenziale”.
Un ulteriore elemento di novità dei nostri giorni è che la provenienza geografica dei caporali è divenuta una variabile che incide fortemente sul reclutamento dei braccianti. Funziona per nazionalità, prima vengono quelli della nazionalità del caporale, e poi gli altri. Funziona così con i tunisini, con i nigeriani, con i senegalesi, i bulgari e via dicendo. Questo determina un effetto paradossale: il caporale diventa per lo sfruttato l’unico riferimento quasi vitale. Perché tutta la catena dello sfruttamento avviene in profonda solitudine.
Per cogliere il senso dello sfruttamento di oggi bisogna comprendere il processo di solitudine e spesso di disperazione che vive chi è straniero . L’assenza (voluta) di una seria politica di integrazione ha causato danni enormi. Oggi lo straniero (regolare od irregolare) vive una condizione di assoluta solitudine e marginalità. Fuori dai servizi, spesso fuori dalle reti sociali, vive ai margini delle città o nei desolati ghetti che popolano le nostre campagne, assediato da fame, disperazione e solitudine. La storia ci insegna che è sempre stato cosi. Anche nei primi del novecento il lavoro agricolo era strettamente intrecciato ai flussi migratori. Certo non erano flussi migratori globali, bensì intraregionali o al massimo interregionali. Ma in alcuni casi mettevano a dura prova - proprio come oggi - il rapporto tra lavoratori “locali” e “forestieri”. Giuseppe Di Vittorio, già all’epoca con lungimiranza, prestò sempre molta attenzione al nesso tra lavoro e flussi migratori.
Da oltre un secolo il Tavoliere delle Puglie è terra di migrazioni. Si sbaglia quando si pensa che solo ora arrivano lavoratori stranieri, e si deduce che l’intreccio tra vulnerabilità dei nuovi arrivati, scarsa sindacalizzazione, paghe da fame e casi di grave sfruttamento lavorativo sia una fatto relativamente recente. Come se prima, un secolo fa, a lavorare la terra e a raccogliere i suoi frutti, fossero unicamente braccianti stanziali, residenti a pochi chilometri dai fondi agricoli, “etnicamente” compatti. Gli “stranieri” che approdavano cento anni fa nell’agro di Cerignola perché a casa loro soffrivano la fame, provenivano dalle altre province pugliesi, seguendo massicce migrazioni stagionali molto simili a quelle attuali e il dissidio tra questi lavoratori nasceva dal fatto che questi ultimi a differenza dei cerignolani erano disposti a lavorare con paghe più basse mandando cosi in malora tutte le lotte sindacali dei cerignolani.
L’intelligenza politica di Di Vittorio fu quella di cogliere che l’essenza del lavoro agricolo è connaturato con la sua stagionalità che inevitabilmente sposta manodopera. Quindi organizzare tutta la manodopera anche quella “ straniera” rappresentò la sua svolta politica. Perché ho fatto questo passo indietro? Perché credo che oggi come allora, il caporalato e lo sfruttamento si combatta con la politica e con il sindacato. La vera arma per colpire il caporalato e lo sfruttamento è solo il sindacato. Certo i controlli aiutano, aiuta notevolmente la presenza delle forze dell’ordine nel presidiare strade e campagna ma più di ogni altra cosa aiuta una capacità nuova di essere sindacato. Piaccia o no ma è cosi. Il sindacato con tutti i suoi limiti e le sue incongruenze è l’unica organizzazione che può creare (in alcuni casi costruire dal nulla) l’ affermazione della legalità. La legge 199 (legge di contrasto al caporalato) non ha funzionato come si immaginava perché non è stata applicata fino in fondo. In parte per responsabilità politica, in larga parte per responsabilità del sistema delle imprese che era chiamato a collaborare nel costruire risposte al bisogno di un trasporto e un collocamento pubblico per superare il ricatto di intermediari senza scrupoli. Così non è stato e questo dimostra la connivenza delle imprese, che per trarre maggior profitto sfruttano forza lavoro senza l’applicazione di alcuna norma circa orari, salari, accoglienza.
Questo è uno dei campi di battaglia per il sindacato: avere la forza e il coraggio non solo di costruire progettualità politica ma di chiedere la piena applicazione di una legge dello stato che finora è stata applicata in piccola parte.
L’azione e la lotta sindacale non può soffermarsi solo ed esclusivamente all’aspetto contrattuale ed a quello dei controlli ma deve costruire con le realtà organizzate dei territori un sistema dei trasporti, un sistema di accoglienza dei lavoratori, un superamento dei ghetti che sono i luoghi dello sfruttamento. In sostanza il sindacato e le organizzazioni sociali possono (e devono) diventare soggetti di creazione di un welfare condiviso con i lavoratori stranieri. Il salto di qualità nella lotta al caporalato può avvenire solo quando all’aspetto repressivo della norma si aggiunge anche quello preventivo. Attivare azioni preventive come sarebbe dovuto essere la creazione della Rete del lavoro agricolo di qualità ovvero una Rete del lavoro agricolo al fine di selezionare imprese agricole e altri soggetti indicati dalla normativa vigente che, su presentazione di apposita istanza, si distinguono per il rispetto delle norme in materia di lavoro, legislazione sociale, imposte sui redditi e sul valore aggiunto. L’adesione a questa rete avrebbe consegnato alle aziende una certificazione di qualità. Morale della favola in provincia di Foggia secondo la Uila Puglia, su 27mila aziende agricole solo 80 sono iscritte alla Rete.
La capacità del sindacato e la sua credibilità oggi si gioca su questo tema: riuscire a fare sistema con tutti i soggetti del territorio e sviluppare una azione politica condivisa e soprattutto complessa. In sostanza si sta parlando di un modo nuovo di essere sindacato che non si limita a rappresentare i lavoratori, ma che diventa con altri soggetto di trasformazione sociale, culturale economica e politica.
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