Quell'eroe sconosciuto della guerra a Foggia

Quanti atti di eroismo si sono consumati in silenzio, lontano dal clamore della cronaca e dalla ribalta della storia nella tragica estate del 1943? Mi fa specie pensare che Foggia sia riuscita nella impresa di dividersi per decenni sul numero esatto delle vittime dei bombardamenti, ma non sia stata in grado di inscrivere nella sua memoria collettiva le tante e tante belle storie che hanno punteggiato quei giorni drammatici, e che corrono il rischio dell'oblio.
Come quella che potete leggere in questa lettera meridiana, in cui mi sono imbattuto spulciando le annate di Avanti Daunia, l'organo della Federazione socialista di Capitanata.
La raccontò sul numero zero del giornale, in edicola il 3 marzo del 1945, firmandosi con lo pseudonimo Cierre, Carlo Ruggiero, che era anche il direttore.
L'articolo è prezioso perché dà conto di pagina oscura e mai sufficientemente portata alla luce del 1943 a Foggia: la feroce rappresaglia nazista che si abbatté sulla città all'indomani dell'armistizio. Come se non fossero bastati i raid aerei degli Alleati, prima di ritirarsi da Foggia, i tedeschi operarono un autentico saccheggio, terrorizzando e mettendo ancora di più in ginocchio la popolazione, decimata e prostrata dalle bombe alleate.
In questo contesto, si consumò un grande atto di coraggio e di onore, ad opera di un ufficiale dell'esercito italiano. Ruggiero, che riferisce la vicenda così come tramandata dalla memoria dei foggiani, parla di un anonimo generale. Si tratta di Felice Caperdoni, che durante quella tragica estate era a capo del Presidio Militare di Foggia, che comprendeva 23 reparti, tra esercito, aviazione, carabinieri, polizia, guardia di finanza e vigili del fuoco.
Non voglio anticiparvelo. Vi dico solo che quando ho letto l'articolo, molto ben scritto e coinvolgente, mi si è accapponata la pelle e mi sono venute le lacrime agli occhi. Così ho pensato - come mi piace fare con tutte le cose belle con cui vengo a contatto - di condividerlo con i miei amici e lettori di Lettere Meridiane. Leggetelo, condividetelo, riflettete. E non dimenticate.
* * *
GENERALI
Quando scoppiò l’armistizio, una banda di tedeschi si avventò sulle strade di Foggia.
Le strade erano deserte, ingombre di macerie e di relitti, ancora sparse di cadaveri.
I tedeschi irruppero nella città ed istintivamente fedeli alle tradizioni dei loro remoti progenitori e compiutamente esperti nella scienza della distruzione, incominciarono la demolizione oculata e razionale, fatta scientificamente, secondo i canoni diligentemente appresi nelle loro scuole di istruzione militare.
Dettero il guasto alle case ed agli edifici pubblici. Spezzarono frantumarono fracassarono. Inaridirono profondamente ogni sorgente di vita, le rovine, nere, fumarono nei cieli senza voce. Le case erano disfatte; dagli squarci enormi mostrarono le cose più care agli uomini: una culla, i vestiti di lavoro, il corredo della ragazza. La città era conclusa in un cerchio di silenzio invalicabile.

In uno degli stabili cittadini esisteva un piccolo presidio militare italiano.
A capo di questo vi era un generale.
Era rimasto nella città malgrado la pioggia delle bombe e la furia del tedeschi, tra il lezzo del cadaveri, in mezzo ad un biblico sconvolgimento ; un piccolo gruppo coraggioso e fedele. Non presidio della città. Presidio dell'onore nazionale.
Tutto ciò mentre il prefetto dell’epoca arrivava all'assurdo di far trasferire il comune di Foggia In un altro comune.
Ad un certo punto al generale si presentarono i tedeschi: casco di acciaio, fucili - mitragliatori puntati, minacciosi e ringhianti.
Intimarono la resa e la consegna delle armi.
Il generale si levò. Era pallido. Gli si voleva infliggere una grande e disonorante umiliazione: disarmare un soldato. Era pallido - certo in quel momento egli ricordò le tradizioni del suo esercito. Certo in quel momento rappresentava l’esercito italiano, il decoro delle nostre armi, l’onore della sua gente.
Egli era solo col suo cuore e coi suoi nemici.
Non tentennò. Sentì nascere nel suo spirito il senso eroico e magnanimo del soldato. Lentamente prese la sua arma. Levò il braccio. Sparò contro se stesso.
Generale, noi non conosciamo il vostro nome. E non possiamo consacrarlo alla gloria della cronaca eroica. Abbiamo appresa la vostra vicenda dalla voce del popolo che ancora si ricorda ai voi, pur dopo tante terribili sventure sue.
Nè facciamo indagini per conoscere il vostro nome. Non sappiamo neppure la vostra sorte. Qualcuno dice che il proiettile della vostra arma ha stroncato la vostra vita. Altri dice che il proiettile vi avrebbe reciso il nerbo della vista, buttandovi nel buio eterno della cecità.
Oggi, per noi, siete un simbolo.
Innanzi a voi si chinano le bandiere.
Anche la nostra, che pur non ama le guerre e la strage, ma solo vuole marciare alla testa del popolo che cammina verso la sua emancipazione. Anche la nostra bandiera perché voi ; avete messo al disopra della vostra vita, della vostra famiglia, della vostra casa la dignità dell'uomo e del cittadino.
Oscuro eroe, spazzato via dalla grande furia degli eventi, dimenticato dalla storia nel nome e nella persona, noi non vogliamo fare di voi la esaltazione convenzionale e rettorica, ma rediamo di onorarvi grandemente rivolgendo al nostro popolo che vi ricorda questa domanda:
— Perché generali di grande prestigio e di grande comando, quelli che adesso con viva pertinacia si difendono dall'accusa di codardia e di tradimento, perché questi generali non seppero che cosa fare quando furono assaliti dai tedeschi?
Cierre


Commenti

Tommaso Palermo ha detto…
Si tratta del Generale Felice Caperdoni, che tentò il suicidio sparandosi alla tempia con un colpo di rivoltella che lo rese cieco, come testimoniato dal Generale Pièche. Un esemplare dell'ordine di consegna delle armi è presente in Germania, presso i Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo (BAMA)
(collocazione: RL 20/233, KTB., Anlage 90. Ne parla Antonio Guerrieri nel suo libro "La città spezzata", pagg. 170 - 171. Una foto del documento è nello stesso volume a pagina 152. Lo stesso Generale ritentò il suicidio una decina d'anni dopo.

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