Quando Carmeno fece vedere i sorci verdi a De Michelis e Forattini gli dedicò una vignetta

Commentando ieri mattina ad Agorà, i disordini scoppiati al Senato nella discussione sullo Ius Soli, Marcello Sorgi ha rievocato un clamoroso episodio che vide protagonista un parlamentare foggiano, Pietro Carmeno. Dopo aver detto che l’aula di Palazzo Madama è stata spesso teatro di bagarre del genere, L’editorialista de La Stampa, ha ricordarono gli incidenti che - cito quasi testualmente - costarono al senatore Carmeno la frattura di un piede.
Se si pensa che da quel giorno sono passati ben 33 anni, si ha l’idea precisa di quanto clamore suscitò il clamoroso gesto di Pietro "Pierino" Carmeno, indimenticabile e straordinario personaggio della sinistra pugliese e meridionale. I fatti conquistarono la prima pagina di tutti i quotidiani e l’apertura di tutti i telegiornali anche perché, al di là dell’importanza dell’argomento in discussione, fu prima volta che comunisti e socialisti, i cui rapporti si erano progressivamente incrinati con l’avvento al potere di Bettino Craxi, arrivarono alle vie di fatto.
Era la mattina del 19 marzo 1984, il Senato era chiamato a discutere sul decreto del Governo che tagliava la scala mobile. Quella scelta segnò in effetti il punto più alto di rottura e lacerazione tra i due partiti della sinistra.
Il Governo avrebbe dovuto rispondere, attraverso il Ministro del Lavoro Gianni De Michelis, socialista, ai 78 ordini del giorno presentati sul decreto. Il senatore comunista Rodolfo Bollini sollevò una (sacrosanta) eccezione procedurale chiedendo che si discutesse preventivamente sulla mancata  copertura finanziaria del decreto.
Trattandosi di una questione regolamentare doveva avere la precedenza. Ma la presidente di turno, la socialista Delia Briotta rispose che se ne sarebbe discusso al pomeriggio, dando la parola ai rappresentanti del governo per la loro relazione. Dai banchi del Pci si levarono urla di protesta che proseguirono per tutta la durata del discorso del ministro De Michelis.   Ed ecco quanto successe subito dopo, nel racconto di Alberto Rapisarda, su La Stampa del 20 marzo 1984.
“De Michelis stava per sedersi quando veniva raggiunto alle spalle, sul banco del governo, dal comunista Pietro Carmeno che si era infilato di corsa nel corridoio che viene utilizzato per le operazioni di voto con le palline. Carmeno si lanciava su De Michelis e gli toglieva dalle mani il pacco degli emendamenti. Per far questo, compiva un salto e cadendo si slogava una caviglia. Dolorante, usciva zoppicando dall’aula con il trofeo in mano. Ma a quel punto scoppiava il putiferio.”
I socialisti reagirono con veemenza e, forti anche dell’età media più giovane di quella dei loro colleghi comunisti, aggredirono i senatori del Pci. Per fortuna non ci furono altri feriti, oltre Carmeno, che in lettiga venne trasportato fuori dall’aula, in un’ambulanza fino all’ospedale dove gli venne diagnosticata una frattura. Ma il giorno successivo, proprio a Palazzo Madama, mentre proseguiva il dibattito venne colto e stroncato da un infarto il senatore comunista Dario Valori.
Il giorno dopo, mentre sulla copertina de La Stampa Forattini faceva assurgere il senatore foggiano agli onori della sua vignetta quotidiana, un socialista lucido e intelligente come Rino Formica invitava a suoi a frenare: “Il paese ha bisogno di un governo autorevole, non autoritario”. Non successe, e da quel giorno iniziò per la sinistra una diaspora che non si è più ricomposta.
A Foggia la notizia venne accolta con un misto di soddisfazione ma anche di stupore. Soddisfazione perché Pierino, come lo chiamavano i compagni e gli amici più stretti, gliel’aveva fatta vedere a quel De Michelis e ai socialisti che stavano trascinando il Paese verso il liberismo (forse allora non si diceva proprio così ma il concetto è più o meno quello).

Stupore perché ad onta della sua stazza e dei suoi quasi due metri di altezza, Pierino non avrebbe fatto male neanche ad una mosca. La violenza non stava nel suo dna: come tutte le persone intelligenti e colte, preferiva il confronto dialettico, anche aspro, duro, ma cercava sempre di portare chi aveva di fronte a ragionare. Questa sua capacità gli ha consentito di svolgere come primo incarico sindacale un ruolo straordinariamente impegnativo come quello della Federbraccianti di Cerignola. Lui, fresco di diploma liceale, esordì nel sindacato guidando l’organizzazione di categoria che è stata di Di Vittorio. E di là partì una trafila di incarichi che lo hanno portato alla guida della federazione provinciale del Pci di Capitanata, tra le più grandi del Mezzogiorno (allora era frequente che dal sindacato si passasse al partito e viceversa) e quindi a parlamentare del partito di Berlinguer.
Era un uomo di una indole mite, ma di quella mitezza che sa diventare coraggio, scatto d’orgoglio e sacrificio quando si tratta di difendere gli ideali in cui si crede.
Non è un caso che abbia voluto dare come titolo al bel libro di memorie che ha scritto qualche mese prima che un’improvvisa malattia ce lo strappasse, proprio un esplicito riferimento a quell’episodio di Palazzo Madama: “La volta che strappai le carte al ministro”.
L’ultima volta che l’ho visto è stato proprio quando ha voluto (onorandomi profondamente) che fossi io a presentare il libro nella sua Vico Garganico. Quella serata e il tragitto in automobile con lui, con suo figlio Maurizio, attuale segretario generale della Camera del Lavoro di Foggia, e con un altro grande personaggio della storia politica della sinistra foggiana come Severino Cannelonga sono stati per me l'occasione di un grande arricchimento, una bella lezione.
Effettivamente il titolo mi aveva un po’ sorpreso. Gli domandai perché l’avesse scelto e se a distanza di anni non si fosse pentito di quel gesto nei confronti del ministro De Michelis. “Non dobbiamo mai pentirci dei gesti che compiamo per difendere le nostre idee, i valori in cui crediamo. Anzi dobbiamo andarne orgogliosi.” E fu quello che ripeté ai giovani che seguirono a decine la bella serata di Vico.
Non è un caso che quella sconfitta sulla “scala mobile” sia stata la madre di tutte le sconfitte della classe lavoratrice, e l’inizio della fine dell’unità della sinistra, una lacerazione che non si è più composta.
E allora, caro Pierino, io voglio ricordarti così: mentre, nonostante il dolore lancinante al piede che ti eri rotto, sollevi al cielo come fosse un trofeo il faldone di carte strappato al Ministro, consapevole di aver combattuto per una causa giusta, di avere difeso i tuoi valori (e i miei): la dignità dei lavoratori, i diritti della democrazia.
Geppe Inserra

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