La Madonna dell'Incoronata, tra storia, leggenda e tradizione (di Francesco Gentile)

Mille e sedici anni fa, secondo la tradizione, nell’ultimo sabato di aprile del 1001 ebbe luogo l’apparizione prodigiosa della Madonna dell’Incoronata. Diverse sono le narrazioni del miracoloso evento, che resta avvolto nella leggenda. A raccontare le varie versioni è stato Francesco Gentile in un prezioso opuscolo edito nel 1930, dall’Ente Provinciale per il Turismo, intitolato La Madonna dell'Incoronata.
Lettere Meridiane pubblica il volumetto a puntate, a partire da oggi, corredato da immagini artistiche e storiche della Madonna. Al termine dell’articolo trovate il link per poter scaricarla ad alta risoluzione.
Daniela Mammana, che ha curato per conto del Centro Servizi Culturali di Foggia una raccolta di suoi scritti definisce Gentile “vivace intellettuale pugliese, nato ad Ascoli Satriano, ma vissuto a Foggia già dal primo decennio del secolo scorso, dove svolse la sua attività di critico d’arte, conferenziere, pubblicista e protagonista della “terza pagina” dei periodici locali partecipando intensamente ai fermenti politici e culturali degli anni suoi e dando vita a numerosi studi, prevalentemente a carattere storico-artistico.”
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A sei  miglia dalla città di Foggia, non molto lontano dal fiume Cervaro, ora povero di acque e di alveo, ma navigabile ai tempi di Strabone, s’erge il bianco Santuario della Incoronata, mèta di pellegrinaggi, asilo di sofferenti anelanti al miracolo della guarigione, fonte sempre viva di fede, di speranza, di rassegnazione. Nell’interno, il tempio è povero di ornamenti e di architettura, fatta eccezione di due scalinate che salgono a destra ed a sinistra dalle pareti laterali, e mettono capo ad una cappella dove trovasi eretto un altare con sopra una nicchia, che serba all’adorazione dei fedeli la statua miracolosa della Madonna. Al di fuori, intorno intorno, si estende un bosco di querce, e, lontano, a perdita di vista, si allarga la pianura feconda del Tavoliere, monotona e solenne, rallegrata, tratto tratto, dal belare delle pecore, dal nitrire dei cavalli, dal muggire dei bovi.
La storia dell’erezione del Santuario deriva, come ognuno sa, dall’episodio della invenzione della Vergine che vi è adorata.
Varie sono le notizie e le voci a noi pervenute intorno alla prodigiosa apparizione.

Secondo un’antica e costante tradizione, in sul principio del secolo XI, nell’ultimo sabato del mese di aprile, fissato da quel tempo quale giorno festivo anniversario, si rinvenne la statua nel bosco presso Foggia, sopra una quercia, ove tuttora si venera. Ed ecco come.
Uno dei signori, che governavano allora le Puglie, ebbe un sogno misterioso: gli sembrò di vedere un daino di bellissime forme, che fuggiva tra i cespugli d’una selva, seguito da fasci di luce. Il sogno si tradusse nella realtà, perché quel signore, spinto più da una voce interna, che dalla curiosità, si recò presto a caccia nel bosco presso il fiume Cervaro, ed ivi scorse una luce abbagliante. Sbigottito dinanzi a tanto splendore, cadde genuflesso ai piedi d’una quercia, donde esso splendore proveniva, ed intese una voce che gli disse: «Io sono, o figliuolo, la Madre di Dio, e voglio che mi sia qui eretta una cappella per essere venerata dai fedeli, ai quali impetrerò da Dio molte grazie». Sparve la luce, e sulla quercia si vide la statua della Vergine Incoronata. Subito dopo giunse a quel posto un contadino che pascolava i bovi, i quali, avvicinandosi alla quercia, si piegarono in segno di adorazione. Il contadino, che denominavasi «Strazzacappa», prese una caldaietta, vi versò dell’olio, e, sospesala ad un ramo a guisa di lampada, l’accese in onore della Madonna. Quell’olio durò mirabilmente per molti anni, senza che se ne rifondesse altro. Il signore fece ivi edificare una cappella, che tuttora esiste di sotto al maggiore altare.
La figura di questo signore predomina nelle versioni consimili.
Verso l’epoca innanzi detta, pure nell’ultimo sabato del mese di aprile, un conte o cavaliere pugliese, od un nobil uomo, di cui fu obliato il nome, si recò a caccia, con buona scorta di servi, in quei siti. Sul far della sera, stanco, andò a riposare in una vicina casetta. Ed ecco che a notte alta quelli del seguito furono presi da spavento; ed entrati nella stanza del signore, gridarono: «Fuggiamo, se non vogliamo restar preda delle fiamme, che la selva va in fuoco!».
Il conte, pur non prestando fede alla strana novella, uscì di casa, e s’avviò verso la selva; ma, non vedendo menomamente quanto gli era stato riferito, invogliò i servi a seguirlo senza alcun timore. Quelli, invece, scorgendo le fiamme sempre più avvicinarsi, e, pur ammirando l’intrepidezza del padrone che s’era di già inoltrato nel fuoco, stimarono utile salvare la propria vita; e si diedero alla fuga. Giunti alla loro dimora, recarono alla contessa la infausta nuova che il signore di suo capriccio si era lasciato consumare dalle fiamme.
Il conte, rimasto solo, proseguì placidamente il cammino; ma fu vinto da stupore, allorché si accorse d’esser investito da insolita luce. Ed allora la selva si presentò ai suoi sguardi non più aspra e cupa, ma ridente come un paradiso: l’aria, invero, era pregna di soavissimi odori; molli eran l’erbette, e sugli alberi, tra i rami in fiore, cantavan gli uccelli, formando dolci melodie che rapivano lo spirito. Egli volgeva lo sguardo a destra ed a manca, attonito; alfine si accorse che tutta quella luce s’irradiava da una quercia di smisurata grandezza. Si avvicinò ad essa, e nel mezzo vide due leggiadrissime fanciulle, simili nelle fattezze e nelle vesti; però, una era bruna, e l’altra splendeva nella propria bianchezza: la prima sembrava immobile, mentre la seconda, dall’atteggiamento, mostrava di avere spirito e vita. Questa, rivoltasi al conte, che, fra la meraviglia e il timore, era rimasto lì fermo, senza poter articolare parola, disse: «Non temere. Io sono Maria, e questa, che qui vedi, è una mia statua, non di lavoro umano. Con essa voglio essere la dispensiera delle grazie a tutta la Puglia. Desidero che nel mio nome, col titolo dell’Incoronata, si fabbrichi qui un tempio. Già udisti i miei voleri; esegui il tutto senza indugio». Così dicendo, si levò in alto, in un nembo di luce, e disparve nel cielo. Nello stesso momento cessò quel grande splendore, che fino allora aveva fatto apparire la selva in fiamme.
Il conte fu rapito in estasi, e si scosse al sopraggiungere di un contadino. Costui, menando al pascolo i buoi, aveva del pari notato un’insolita luce, ed erasi portato a quella volta per darsene ragione. I due si abbracciarono e si raccontarono a vicenda le meraviglie ch’erano accadute; indi si posero ad ammirare la statua, che ispirava una celeste maestà, ed aveva il capo adorno da una triplice e ricca corona. In atto di devozione, sospesero a lato della Madonna un rozza lampada, accesa con quel poco d’olio ch’era in possesso del bifolco. Lo scarso alimento bastò a tenere costantemente viva, per molti anni, la fiamma, e servì di miracoloso balsamo alle ferite ed ai malati.
La narrazione continua. Il conte, ordinato al contadino di rimanere ivi per custodire la veneranda Immagine, si recò al suo paese per provvedere alla edificazione del tempio. Intanto, giunto a casa, trovò i suoi due figli che con la spada alla mano erano in aspra lotta per la contesa del feudo, poiché, in base alle notizie loro date dai servi, avevano ritenuto che il padre fosse perito nell’incendio della foresta. Il conte riuscì a sedare la tempesta, e, per timore di altra discordia, si trattenne alquanto tempo in casa, e trascurò di eseguire il comandamento della Vergine. Ma fu punito, perché venne assalito da un morbo strano, che lo rese immobile, senza favella, e con le carni cosparse di piaghe. Furono escogitati tutti i rimedi per la guarigione; ma essi riuscirono vani; e, versando egli in fin di vita, ebbe la visione della Vergine che, mentre lo rimproverò della dimenticanza, gli promise pure misericordia e perdono. L’infelice giurò in cuor suo di eseguire il tutto con prontezza, e scrisse su di un foglio le sue disposizioni; quindi si fece portare in lettiga presso la sacra quercia, per assistere all’inizio della costruzione del tempio. Trovavasi ivi gran folla, accorsa per venerare l’Immagine donata dal cielo, e per ammirare le portentose guarigioni, che erano operate, per virtù soprannaturale, con la semplice unzione dell’olio della lampada. Così avvenne per lui; appena unto, riacquistò la favella, si sentì perfettamente libero dalle incurabili piaghe, uscì da solo dalla lettiga, e, colmo l’animo di gioia, in mezzo al popolo festante, levò alla Vergine il cantico della gloria e del ringraziamento.
Sorse, pertanto, il nuovo tempio sulla primitiva, rozza chiesetta, intorno alla quercia, sul cui trono rimase la statua.
Le versioni innanzi riferite, si fondono con quella popolare che, come tutte le voci del genere, ha in sé qualche cosa di suggestivo per effetto della semplicità e del sentimento che la ispirano.
Menava vita grama e pia, nel bosco presso Foggia, un vecchietto, che conduceva i bovi al pascolo, e con essi lavorava il terreno. Un lieto giorno, la Madonna volle degnare il sant’uomo della grazia celeste; ed a lui apparve, nel corso d’un sabato di primavera, e nel colmo della fatica, su di una quercia, con le mani giunte, con la veste ornata di stelle, tra raggi di luce abbagliante. A quella vista il vecchio si scoprì il capo, gettò a terra la mazza che aveva per sostegno, e cadde in ginocchio, pregando. Si prostrarono anche i bovi, in adorazione. Subito dopo, il vecchio tolse dalla sua capanna una piccola caldaia, e, versatovi dell’olio, ne fece una lampada che attaccò ad un ramo, di fianco alla statua. In tal guisa l’episodio è raffigurato nelle immagini a stampa, tanto diffuse. Egualmente dicasi per l’episodio del conte. Il bifolco, nel concetto popolare, è ritenuto un santo; comunemente viene chiamato «strazzacappa», che vuol dire: uomo dal cappotto lacero, in male arnese, povero.
Abbiamo già detto che ignorasi il nome di quel conte, o signore di Puglia, che ebbe la fortuna di scoprire la statua della Madonna. Anche a tal riguardo, varie sono le versioni. Poiché l’invenzione si verificò al tempo in cui i Normanni tenevano il dominio della Puglia, così alcuni intendono riferirsi, per la identificazione, ad un signore di quella famiglia, conte di Ariano; ed avvalorano la loro opinione, considerando che volle Iddio servirsi di quei pii governanti per diffondere la religione cristiana nelle popolazioni, appunto col rinvenimento dei santi simulacri nelle nostre terre. Per vero, in epoca posteriore al ritrovamento della Incoronata, e precisamente nell’anno 1062, mentre Roberto Guiscardo governava Foggia, fu scoperto il Sacro Tavolo della Madonna dei Sette Veli, anche col segno prodigioso delle fiamme e con la presenza di un villano, il quale menava innanzi due bovi, od un toro, a dissetarsi in un lago presso l’abitato di Foggia. Del pari, in tale incontro, le bestie si prostrarono in adorazione. Il Guiscardo, poi, fu preso da sì profonda venerazione per l’Icona Vetere, che non tardò a far elevare un tempio - corrispondente all’attuale soccorpo della cattedrale - impiegandovi parte d’un tesoro trovato fra i confini di Trani ed Andria. Il posto prescelto fu lo stesso sito basso e paludoso, dove erasi rinvenuta l’effigie; e tale posto il divoto duca fece prima convenientemente prosciugare. Pertanto, la Sacra Icona assunse il nome di Sancta Maria de Fovea.
Altri ritengono che l’Incoronata sia apparsa per la prima volta ad un conte della casa Guevara di Bovino; ma l’asserzione, storicamente parlando, è errata, perché si sa che quella nobilissima famiglia venne nel regno nel secolo XV, con gli Aragonesi, e che non prima del 1444, in epoca molto posteriore al ritrovamento della statua, ricevette la contea di Ariano, per avere re Alfonso di Napoli donato a don Inigo di Guevara, in riconoscimento dei servigi ricevuti, il marchesato del Vasto, la contea d’Ariano e l’ufficio di gran siniscalco del regno. Se ne deduce che quel conte, venuto in Puglia piana per visitare Maria, dové ricevere, nell’antico romitaggio e nella cappella della Vergine, tali grazie, da essere indotto ad elargire doni al Santuario ed a farne ampliare i fabbricati.
Francesco Gentile
(1. continua)
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