Cinemadessai | "I quattrocento colpi" di Truffaut, il più bel film di sempre su adolescenza e scuola
Un must per ogni cinefilo che si rispetti. Da vedere. Da rivedere, sequenza per sequenza, inquadratura per inquadratura.
Stasera, alle 22.15 su Tv 2000 il film che ha ufficialmente inaugurato la stagione della nouvelle vague in Francia: I quattrocento colpi di François Truffaut, che rappresenta anche il primo lungometraggio del geniale regista parigino (che tuttavia, quando girò la sua opera prima, aveva alle spalle diversi cortometraggi, alcuni dei quali in collaborazione con Godard).
Cinefilo rigoroso e critico militante, Truffaut aveva scritto qualche anno prima che “il film del futuro sarà un atto d'amore”. I quattrocento colpi costituisce, in un certo senso, l’attuazione di questo ambizioso disegno.
Un atto d'amore fondato sulla memoria, rappresentata in questo caso dai ricordi d'infanzia di Truffaut.
Film in parte autobiografico, I quattrocento colpi racconta la storia di Antoine Doinel (alter ego del regista, che lo accompagnerà fino all'età matura nei successivi film), incarnato dall'attore-feticcio Jean-Pierre Léaud.
Introverso, difficile, scontroso, Antoine marina spesso la scuola, ha un rapporto ostile con gli insegnanti, rubacchia qua e là. È un modo per manifestare il suodesiderio di ribellione. Ma quando con l’amico René (Albert Rémy) ruba una macchina da scrivere, per lui cominciano i guai… Finirà infatti in riformatorio. La struggente sequenza finale viene ritenuta tra le più belle ed importanti di tutta la storia del cinema.
La pellicola vinse il Gran premio speciale della giuria a Cannes nel 1958. Personalmente lo ritengo tra i più bei film sull’adolescenza e sulla scuola di sempre.
Doinel e Leaud torneranno in altri quattro film, fino all'ultimo "L'amore fugge" del '78.
DOMANI
C’è stato un tempo in cui Giacomo Campiotti non era (ancora) il regista di fortunatissime serie televisive come Braccialetti rossi, Preferisco il paradiso, Giuseppe Moscati, ma un geniale e promettente autore indipendente (Come due coccodrilli) che aveva frequentato Ipotesi cinema di Ermanno Olmi, e si segnalava per la sua capacità di raccontare con delicatezza e garbo, storie dell’oggi, in particolare dell’universo giovanile.
Gli sono particolarmente affezionato perché fu la sera che con Mauro Palma al Falso Movimento di Foggia presentammo il suo bellissimo e poco conosciuto Il tempo dell’amore, che nacque l’idea del Festival del cinema indipendente di Foggia.
Campiotti non potè partecipare alla serata perché bloccato a casa sua dal “colpo della strega”: lo intervistai telefonicamente, ma mi colpirono il suo spessore culturale e i problemi di distribuzione che aveva incontrato Il tempo dell’amore, simili a quella di tanti buoni film che escono in sala tardi e male rispetto a quando sono stati prodotti. Allora, con Mauro, ci dicemmo che bisognava trovare a quei film a rischio di invisibilità (il festival doveva infatti chiamarsi “del cinema invisibile”, poi si optò per “indipendente”, per non urtare la suscettibilità degli autori. (Comunque chi vuole saperne di più trova tutta la storia in questa lettera meridiana…).
Domani sera (ore 21.20, su Rai Movie) c’è la possibilità di vedere il suo ultimo lungometraggio, Bianca come il latte, rossa come il sangue, uscito nel 2013, prima che la sua attività fosse completamente assorbita dalle diverse stagioni di Braccialetti Rossi.
Il film è particolarmente tipico della cinematografia di Campiotti, del suo modo di raccontare la vita, i sentimenti e l’universo giovanile.
Un bel film che racconta la storia del sedicenne Leo. Per lui la vita ha solo due colori: il Bianco e il Rosso. Non si pettina mai, gioca a calcetto, ascolta musica a tutto volume, così non pensa... Detesta fare i compiti ma se ne frega perché sa che li copierà.
La scuola è bella ma solo al pomeriggio, quando i prof non ci sono. Il Bianco è il vuoto assoluto, il silenzio, la noia e fa paura. Da evitare.
Il Rosso è il sangue che pulsa nelle vene prima di una partita, è il colore dei capelli di Beatrice, la ragazza dei suoi sogni. Da rincorrere.
Farebbe qualunque cosa per lei perché è innamorato, innamorato pazzo di Beatrice. Anche se lei ancora non lo sa. Quando finalmente trova il coraggio di avvicinarsi alla ragazza, scopre che Beatrice sta attraversando un grande dolore.
Di fronte alla sua sofferenza, Leo si trova a crescere e fare delle scelte intorno al suo mondo che lo guarda e lo incoraggia: i genitori, i compagni, un professore davvero “speciale”.
Ha scritto nelle note di regia Giacomo Campiotti: "Mi sono molto divertito a girare questo film. Con grande libertà e leggerezza ho cercato di usare il linguaggio dei ragazzi, i loro ritmi bruschi e spezzati, e improvvisamente delicati e dolcissimi. Insieme ai miei validi collaboratori ho cercato di dare agilità e freschezza alla macchina da presa, al montaggio e alle musiche. Non è un film oggettivo. Tutto è visto dagli occhi di Leo. Gli spazi e i luoghi della città dove si svolge la storia non sono realistici ma sono colorati e trasfigurati dal filtro emotivo del momento che Leo vive. Ho lavorato soprattutto per preservare e cogliere la sua emozione. Ho cercato di raccontare come corre sotto la pelle e a volte anche sopra. Dalla vetta del mondo al baratro più profondo. Senza passare dal mezzo. A sedici anni il tiepido non esiste. Ho cercato di realizzare un film che faccia sorridere ma anche pensare e commuovere."
Non perdetelo. Ne vale la pena.
Stasera, alle 22.15 su Tv 2000 il film che ha ufficialmente inaugurato la stagione della nouvelle vague in Francia: I quattrocento colpi di François Truffaut, che rappresenta anche il primo lungometraggio del geniale regista parigino (che tuttavia, quando girò la sua opera prima, aveva alle spalle diversi cortometraggi, alcuni dei quali in collaborazione con Godard).
Cinefilo rigoroso e critico militante, Truffaut aveva scritto qualche anno prima che “il film del futuro sarà un atto d'amore”. I quattrocento colpi costituisce, in un certo senso, l’attuazione di questo ambizioso disegno.
Un atto d'amore fondato sulla memoria, rappresentata in questo caso dai ricordi d'infanzia di Truffaut.
Film in parte autobiografico, I quattrocento colpi racconta la storia di Antoine Doinel (alter ego del regista, che lo accompagnerà fino all'età matura nei successivi film), incarnato dall'attore-feticcio Jean-Pierre Léaud.
Introverso, difficile, scontroso, Antoine marina spesso la scuola, ha un rapporto ostile con gli insegnanti, rubacchia qua e là. È un modo per manifestare il suodesiderio di ribellione. Ma quando con l’amico René (Albert Rémy) ruba una macchina da scrivere, per lui cominciano i guai… Finirà infatti in riformatorio. La struggente sequenza finale viene ritenuta tra le più belle ed importanti di tutta la storia del cinema.
La pellicola vinse il Gran premio speciale della giuria a Cannes nel 1958. Personalmente lo ritengo tra i più bei film sull’adolescenza e sulla scuola di sempre.
Doinel e Leaud torneranno in altri quattro film, fino all'ultimo "L'amore fugge" del '78.
DOMANI
C’è stato un tempo in cui Giacomo Campiotti non era (ancora) il regista di fortunatissime serie televisive come Braccialetti rossi, Preferisco il paradiso, Giuseppe Moscati, ma un geniale e promettente autore indipendente (Come due coccodrilli) che aveva frequentato Ipotesi cinema di Ermanno Olmi, e si segnalava per la sua capacità di raccontare con delicatezza e garbo, storie dell’oggi, in particolare dell’universo giovanile.
Gli sono particolarmente affezionato perché fu la sera che con Mauro Palma al Falso Movimento di Foggia presentammo il suo bellissimo e poco conosciuto Il tempo dell’amore, che nacque l’idea del Festival del cinema indipendente di Foggia.
Campiotti non potè partecipare alla serata perché bloccato a casa sua dal “colpo della strega”: lo intervistai telefonicamente, ma mi colpirono il suo spessore culturale e i problemi di distribuzione che aveva incontrato Il tempo dell’amore, simili a quella di tanti buoni film che escono in sala tardi e male rispetto a quando sono stati prodotti. Allora, con Mauro, ci dicemmo che bisognava trovare a quei film a rischio di invisibilità (il festival doveva infatti chiamarsi “del cinema invisibile”, poi si optò per “indipendente”, per non urtare la suscettibilità degli autori. (Comunque chi vuole saperne di più trova tutta la storia in questa lettera meridiana…).
Domani sera (ore 21.20, su Rai Movie) c’è la possibilità di vedere il suo ultimo lungometraggio, Bianca come il latte, rossa come il sangue, uscito nel 2013, prima che la sua attività fosse completamente assorbita dalle diverse stagioni di Braccialetti Rossi.
Il film è particolarmente tipico della cinematografia di Campiotti, del suo modo di raccontare la vita, i sentimenti e l’universo giovanile.
Un bel film che racconta la storia del sedicenne Leo. Per lui la vita ha solo due colori: il Bianco e il Rosso. Non si pettina mai, gioca a calcetto, ascolta musica a tutto volume, così non pensa... Detesta fare i compiti ma se ne frega perché sa che li copierà.
La scuola è bella ma solo al pomeriggio, quando i prof non ci sono. Il Bianco è il vuoto assoluto, il silenzio, la noia e fa paura. Da evitare.
Il Rosso è il sangue che pulsa nelle vene prima di una partita, è il colore dei capelli di Beatrice, la ragazza dei suoi sogni. Da rincorrere.
Farebbe qualunque cosa per lei perché è innamorato, innamorato pazzo di Beatrice. Anche se lei ancora non lo sa. Quando finalmente trova il coraggio di avvicinarsi alla ragazza, scopre che Beatrice sta attraversando un grande dolore.
Di fronte alla sua sofferenza, Leo si trova a crescere e fare delle scelte intorno al suo mondo che lo guarda e lo incoraggia: i genitori, i compagni, un professore davvero “speciale”.
Ha scritto nelle note di regia Giacomo Campiotti: "Mi sono molto divertito a girare questo film. Con grande libertà e leggerezza ho cercato di usare il linguaggio dei ragazzi, i loro ritmi bruschi e spezzati, e improvvisamente delicati e dolcissimi. Insieme ai miei validi collaboratori ho cercato di dare agilità e freschezza alla macchina da presa, al montaggio e alle musiche. Non è un film oggettivo. Tutto è visto dagli occhi di Leo. Gli spazi e i luoghi della città dove si svolge la storia non sono realistici ma sono colorati e trasfigurati dal filtro emotivo del momento che Leo vive. Ho lavorato soprattutto per preservare e cogliere la sua emozione. Ho cercato di raccontare come corre sotto la pelle e a volte anche sopra. Dalla vetta del mondo al baratro più profondo. Senza passare dal mezzo. A sedici anni il tiepido non esiste. Ho cercato di realizzare un film che faccia sorridere ma anche pensare e commuovere."
Non perdetelo. Ne vale la pena.
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