Il Di Vittorio tradito di Pierfrancesco Favino

Premetto che il Di Vittorio di Alberto Negrin e Pierfrancesco Favino non mi è piaciuto. È innegabile che lo sceneggiato prodotto qualche anno fa da Raiuno abbia avuto il grande merito di far conoscere al grande pubblico, soprattutto giovane, la figura del grande sindacalista di Cerignola. Ma la vita, l’opera ed il pensiero di Peppino Di Vittorio sono stati troppo complessi per poter essere raccontati all’interno dei rigorosi e patinati format delle fiction Rai, che esaltano la dimensione privata a scapito di quella pubblica.
Da cinefilo avevo un sogno, che dubito possa mai realizzarsi. Mi sarebbe piaciuto che a girare il film fosse Ken Loach e che, di conseguenza, il pingue contributo elargito dalla Regione Puglia e dal Ministero dello Sviluppo Economico per la realizzazione di Pane e Libertà fosse piuttosto utilizzato per sostenere la realizzazione di un film ad opera del regista inglese, il più idoneo - per storia e per idea di cinema - a raccontare un monumento del socialismo del Novecento quale Di Vittorio.
La rappresentazione di Negrin è convenzionale, oleografica. L’interpretazione del pur bravissimo Pierfrancesco Favino è eccessivamente di maniera: il Di Vittorio che ne viene fuori è altra cosa dal personaggio che riusciva a infiammare i cuori di milioni di lavoratori.
Il mio giudizio negativo su Pane e libertà è stato rafforzato qualche giorno fa, quando ho visto, grazie alla Fondazione Foa e alla Fondazione Banca del Monte, Giuseppe Di Vittorio, la voce dei lavoratori, bel documentario prodotto da Rai Storia, girato dalla mano valente e lucida di Giuseppina Rossi, regista originaria di Foggia.

Il lavoro della Rossi rappresenta, secondo me, il prodotto audiovisivo più completo e rigoroso che sia mai stato realizzato su Di Vittorio. Nel suo racconto, la regista utilizza sia sequenze di Pane e Libertà, sia rari brani di repertorio in cui si vede e si ascolta Di Vittorio in carne ed ossa. 
L'accostamento mette a nudo la stridente contraddizione tra il Di Vittorio interpretato da Favino che parla quasi in dialetto, e quello vero, che sfoggia invece un’oratoria forbita, coinvolgente, priva di accenti dialettali e ottenuta a prezzo di grandi sacrifici.
Il saper parlare bene, allo stesso modo i padroni, era stato l’imperativo categorico del giovanissimo bracciante autodidatta che studiava di notte per imparare le stesse parole dei padroni e che fatto della cultura e della conoscenza lo strumento di riscatto di una generazione di lavoratori. 
Il dialetto di Favino sarò funzionale alla edulcorata fiction di Raiuno, ma non rende certo merito alla grandezza culturale di  Giuseppe Di Vittorio.

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