Caporalato, il Tavoliere sotto i riflettori de L'Unità
La Capitanata torna sotto i riflettori della stampa nazionale per l'emergenza caporalato. Pur non essendo stato interressato dai gravi episodi di cronaca delle ultime settimane, infatti, il Tavoliere resta una delle aree meridionali maggiormente esposte al fenomeno, che si concentra soprattutto nelle zone di raccolta del pomodoro.
"Trent'anni dopo - scrive la giornalista e deputata Rosaria Capacchione su L'Unità - il valore nominale del salario è invariato a quei tempi, in Capitanata come nell'agro aversano o nel nocerino-sarnese, mille lire per ogni cassetta da pomodori, e fino a cinquanta al termine di una giornata di lavoro che iniziava quando ancora non era l'alba e finiva che era già il tramonto; oggi, due euro all'ora, che alla fine della giornata diventano venticinque."
Su questo misero salario va calcolata la "provvigione supplementare" pagata dai braccianti al caporale, il venti per cento della giornata. Per l'autrice dell'articolo si tratta di un fenomeno tanto endemico quanto radicato: "sono almeno settant'anni che mafia, camorra e 'ndrangheta controllano il mercato delle braccia destinate all'agricoltura.
Lo spietato meccanismo - racconta Capacchione - stava per essere smantellato proprio in Capitanata, quando migliaia di braccianti immigrati si trasferirono nel Tavoliere dalla Campania, dove una virosi aveva distrutto il raccolto. Era il 1993, e "latifondisti e caporali si coalizzarono contro i braccianti africani e li cacciarono in malo modo da Stornara, Stornarella e Orta Nova: erano troppi, contrattavano direttamente coi proprietari dei terreni, strappavano salari migliori."
Paradossalmente, ma non troppo, proprio i lavoratori immigrati possono diverntare una concreta speranza e risorsa nella lotta alla mafia dei campi, perché diversamente dagli italiani, riescono a ribellarsi, a rivendicare condizioni di vita e di lavoro più eque.
"Trent'anni dopo - scrive la giornalista e deputata Rosaria Capacchione su L'Unità - il valore nominale del salario è invariato a quei tempi, in Capitanata come nell'agro aversano o nel nocerino-sarnese, mille lire per ogni cassetta da pomodori, e fino a cinquanta al termine di una giornata di lavoro che iniziava quando ancora non era l'alba e finiva che era già il tramonto; oggi, due euro all'ora, che alla fine della giornata diventano venticinque."
Su questo misero salario va calcolata la "provvigione supplementare" pagata dai braccianti al caporale, il venti per cento della giornata. Per l'autrice dell'articolo si tratta di un fenomeno tanto endemico quanto radicato: "sono almeno settant'anni che mafia, camorra e 'ndrangheta controllano il mercato delle braccia destinate all'agricoltura.
Lo spietato meccanismo - racconta Capacchione - stava per essere smantellato proprio in Capitanata, quando migliaia di braccianti immigrati si trasferirono nel Tavoliere dalla Campania, dove una virosi aveva distrutto il raccolto. Era il 1993, e "latifondisti e caporali si coalizzarono contro i braccianti africani e li cacciarono in malo modo da Stornara, Stornarella e Orta Nova: erano troppi, contrattavano direttamente coi proprietari dei terreni, strappavano salari migliori."
Paradossalmente, ma non troppo, proprio i lavoratori immigrati possono diverntare una concreta speranza e risorsa nella lotta alla mafia dei campi, perché diversamente dagli italiani, riescono a ribellarsi, a rivendicare condizioni di vita e di lavoro più eque.
Commenti