Ajinomoto-Insud: la storia del fallimento di una politica industriale
L’immagine che illustra questa lettera meridiana è stata postata, qualche giorno fa, dall’amico Giorgio Montedoro sul suo profilo Facebook. Riproduce la bustina di un insaporitore giapponese, a base di glutammato monosodico, che si vende nei maggiori supermercati. Pochi sanno, però, che una volta questo prodotto veniva preparato in provincia di Foggia, a Manfredonia.
"Quali le reali ragioni di una chiusura di una fabbrica che realizzava un prodotto che economicamente ancora tira?", si chiede argutamente Montedoro.
La storia dell'Ajinomoto-Insud di Manfredonia e della vertenza che esplose all'indomani della sua improvvisa chiusura, costituisce uno dei capitoli più controversi ed emblematici del processo di industrializzazione vissuto dalla Capitanata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Delle sue potenzialità, dei suoi limiti. Di quella vertenza conservo un ricordo molto vivo, perché fu la prima di cui mi occupai, da cronista, allora molto giovane.
Da un certo punto di vista, lo stabilimento fu per dieci anni il fiore all'occhiello di quella stagione industriale, quello che meglio esprimeva la sua filosofia, almeno nelle intenzioni. Ma il problema comune a tante parte della fragile storia dell'industria meridionale è che spesso alle intenzioni, non hanno fatto seguito i fatti.
Realizzata grazie ad una intesa tra l'azienda nipponica e la Insud, finanziaria delle partecipazioni statali che furono tra gli attori principali della industrializzazione della Capitanata, quell'insediamento intendeva essere un ponte tra la nascente vocazione industriale del territorio e quella tradizionale, rappresentata dall'agricoltura.
Quale materia prima doveva essere utilizzato infatti il melasso, un sottoprodotto del processo di lavorazione della barbabietola utilizzata negli zuccherifici del Tavoliere. Sembra però che in realtà l'azienda fu sempre costretta ad approvvigionarsi dall'estero.
Le cose andarono bene per una decina d'anni, con il glutammato che veniva prodotto a Manfredonia e venduto in tutta Europa. Ma bastò una leggera crisi di mercato e l'approssimarsi della scadenza del contratto che la società giapponese aveva stipulato con l'Insud (in base al quale avrebbe dovuto rilevare tutte le quote statali) ad incrinare il rapporto tra gli industriali nipponici e il territorio foggiano.
L'episodio più sconcertante della lunga vertenza riguarda proprio la chiusura: i giapponesi se ne andarono veramente da un giorno all'altro, dopo aver smontato e portato via pezzo per pezzo i sofisticati macchinari che si avvalevano di processi produttivi all'avanguardia e protetti da particolari brevetti. Non ci fu verso di avviare una qualsivoglia trattativa che salvaguardasse la presenza produttiva dell'Ajinomoto sul territorio.
Gli operai finirono in cassa integrazione, e si aprì una vertenza che sarebbe durata anni, senza che mai si riuscisse a trovare uno sbocco. Si fece avanti la Realtur che ipotizzò la riconversione dello stabilimento con l'avvio di una linea di produzione di liofilizzati e surgelati, utilizzando anche il pescato locale.
La società rilevò gli impianti, ma l'ambizioso piano industriale non fu mai realizzato. La cassa integrazione durò due anni, e per tutto quel periodo gli impianti rimasero inutilizzati. Uno spiraglio sembrò aprirsi all'inizio degli anni Ottanta quando la Realtur cedette parte dello stabilimento alla Lombarda Fertilizzanti che avviò la produzione per un certo periodo di tempo ma poi fu essa stessa costretta a chiudere i battenti.
Della vecchia fabbrica è sopravvissuto soltanto il laboratorio, utilizzato dalla Realtur per la realizzazione di studi su commessa.
È singolare come la storia somigli non poco a quella dell'altro colosso industriale che tante speranze accese a Manfredonia, e non solo: l'Enichem. Il contratto d'area scaturito dalla chiusura dell'industria chimica ha funzionato certamente meglio del fragile piano industriale della Realtur. Ma com'è accaduto per l'Ajinomoto, una volta che sono finiti i contributi pubblici, anche le aziende che si erano insediate nell'area industriale orfana del petrolchimico hanno preso cappello, e se ne sono andate.
Il prof. Roberto Rana, ricercatore della Facoltà di Economia dell'Università di Foggia, ha scritto sulla storia dell'Ajinomoto-Insud di Manfredonia un bel saggio che descrive il ciclo produttivo impiegato dall'azienda e cerca "di comprendere, attraverso le vicende politiche, storiche ed economiche relative a quegli anni, le motivazioni che hanno indotto alla sua costruzione e successiva chiusura." (Ve ne suggerisco la lettura perché è dettagliato ed interessante: potete scaricarlo qui).
La conclusione del prof. Rana è lapidaria, ma del tutto condivisibile: "Questo evento rappresenta un esempio del fallimento della politica di sviluppo industriale operata dallo Stato nel territorio nazionale e un’ altra occasione perduta per l’ economia del Mezzogiorno d’ Italia."
"Quali le reali ragioni di una chiusura di una fabbrica che realizzava un prodotto che economicamente ancora tira?", si chiede argutamente Montedoro.
La storia dell'Ajinomoto-Insud di Manfredonia e della vertenza che esplose all'indomani della sua improvvisa chiusura, costituisce uno dei capitoli più controversi ed emblematici del processo di industrializzazione vissuto dalla Capitanata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Delle sue potenzialità, dei suoi limiti. Di quella vertenza conservo un ricordo molto vivo, perché fu la prima di cui mi occupai, da cronista, allora molto giovane.
Da un certo punto di vista, lo stabilimento fu per dieci anni il fiore all'occhiello di quella stagione industriale, quello che meglio esprimeva la sua filosofia, almeno nelle intenzioni. Ma il problema comune a tante parte della fragile storia dell'industria meridionale è che spesso alle intenzioni, non hanno fatto seguito i fatti.
Realizzata grazie ad una intesa tra l'azienda nipponica e la Insud, finanziaria delle partecipazioni statali che furono tra gli attori principali della industrializzazione della Capitanata, quell'insediamento intendeva essere un ponte tra la nascente vocazione industriale del territorio e quella tradizionale, rappresentata dall'agricoltura.
Quale materia prima doveva essere utilizzato infatti il melasso, un sottoprodotto del processo di lavorazione della barbabietola utilizzata negli zuccherifici del Tavoliere. Sembra però che in realtà l'azienda fu sempre costretta ad approvvigionarsi dall'estero.
Le cose andarono bene per una decina d'anni, con il glutammato che veniva prodotto a Manfredonia e venduto in tutta Europa. Ma bastò una leggera crisi di mercato e l'approssimarsi della scadenza del contratto che la società giapponese aveva stipulato con l'Insud (in base al quale avrebbe dovuto rilevare tutte le quote statali) ad incrinare il rapporto tra gli industriali nipponici e il territorio foggiano.
L'episodio più sconcertante della lunga vertenza riguarda proprio la chiusura: i giapponesi se ne andarono veramente da un giorno all'altro, dopo aver smontato e portato via pezzo per pezzo i sofisticati macchinari che si avvalevano di processi produttivi all'avanguardia e protetti da particolari brevetti. Non ci fu verso di avviare una qualsivoglia trattativa che salvaguardasse la presenza produttiva dell'Ajinomoto sul territorio.
Gli operai finirono in cassa integrazione, e si aprì una vertenza che sarebbe durata anni, senza che mai si riuscisse a trovare uno sbocco. Si fece avanti la Realtur che ipotizzò la riconversione dello stabilimento con l'avvio di una linea di produzione di liofilizzati e surgelati, utilizzando anche il pescato locale.
La società rilevò gli impianti, ma l'ambizioso piano industriale non fu mai realizzato. La cassa integrazione durò due anni, e per tutto quel periodo gli impianti rimasero inutilizzati. Uno spiraglio sembrò aprirsi all'inizio degli anni Ottanta quando la Realtur cedette parte dello stabilimento alla Lombarda Fertilizzanti che avviò la produzione per un certo periodo di tempo ma poi fu essa stessa costretta a chiudere i battenti.
Della vecchia fabbrica è sopravvissuto soltanto il laboratorio, utilizzato dalla Realtur per la realizzazione di studi su commessa.
È singolare come la storia somigli non poco a quella dell'altro colosso industriale che tante speranze accese a Manfredonia, e non solo: l'Enichem. Il contratto d'area scaturito dalla chiusura dell'industria chimica ha funzionato certamente meglio del fragile piano industriale della Realtur. Ma com'è accaduto per l'Ajinomoto, una volta che sono finiti i contributi pubblici, anche le aziende che si erano insediate nell'area industriale orfana del petrolchimico hanno preso cappello, e se ne sono andate.
Il prof. Roberto Rana, ricercatore della Facoltà di Economia dell'Università di Foggia, ha scritto sulla storia dell'Ajinomoto-Insud di Manfredonia un bel saggio che descrive il ciclo produttivo impiegato dall'azienda e cerca "di comprendere, attraverso le vicende politiche, storiche ed economiche relative a quegli anni, le motivazioni che hanno indotto alla sua costruzione e successiva chiusura." (Ve ne suggerisco la lettura perché è dettagliato ed interessante: potete scaricarlo qui).
La conclusione del prof. Rana è lapidaria, ma del tutto condivisibile: "Questo evento rappresenta un esempio del fallimento della politica di sviluppo industriale operata dallo Stato nel territorio nazionale e un’ altra occasione perduta per l’ economia del Mezzogiorno d’ Italia."
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