Perché si dice Fuggi da Foggia
Fuggi da Foggia è un marchio d'infamia, più che un proverbio che bolla in maniera impietosa il capoluogo dauno. Ma a che si deve questo modo di dire, tutt'altro che positivo, per la città e per i suoi abitanti, visto che taluno aggiunge al Fuggia da Foggia, rincarando la dose non per Foggia, ma per i foggiani.
La risposta all'interrogativo si trova in un bel saggio pubblicato nel 1987 dalla rivista della Bibloteca Provinciale di Foggia, La Capitanata, a firma di Antonio Ventura, saggista e cultore di storia locale che, prima di godersi la meritata pensione, ha diretto per molti anni con competenza e passione la sezione dei fondi speciali della Biblioteca, che custodisce appunto i materiali storici e documentari d'interesse provinciale.
Il saggio è intitolato "Fuggi da Foggia! La città vista dagli altri, nel Settecento e nell'Ottocento". L'ottimo Ventura avanza una ipotesi circa l'origine del modo di dire: a coniarlo potrebbe essere stato proprio uno dei molti viaggiatori che tra il '700 e l' '800 visitarono la città, quasi sempre offrendone un racconto assai poco edificante.
In particolare, si tratterebbe di Francesco Longano, un religioso originario del Molise teologo, filosofo ed economista, vissuto nel Settecento, che si segnalò per le sue idee illuministe, ed ebbe diversi problemi con le autorità religiose dell'epoca.
Come si legge nella quarta di copertina del volume Viaggi per lo Regno di Napoli (che continene anche il Viaggio per la Capitanata cui fa riferimento Ventura) Francesco Longano, allievo di Genovesi, apre, nelle sue opere, una riflessione importante sulla condizione umana. Nei Viaggi per lo Contado di Molise e per la Capitanata, compiuti tra il 1786 e il 1790, da acuto osservatore politico, segnala lo stato di abbandono, miseria, sottosviluppo in cui versa il Mezzogiorno e le ragioni che lo hanno determinato. Longano, allora, si sforza di fornire al sovrano una serie di saperi utili a pianificare la sua azione di governo, mostrandosi assolutamente convinto che la pratica riformatrice sia inadeguata e inefficace a realizzare ogni possibile trasformazione della complessa realtà meridionale.
Il saggio di Ventura rilegge criticamente quanto hanno scritto di Foggia i numerosi reporter che vi viaggiarono nel corso di due secoli. E si tratta di una lettura utilissima anche per quanti vivono oggi nel capoluogo della Capitanata e non sanno se restare o andar via.
Lettere Meridiane propone il saggio a puntate.
Il "merito" di averlo reso celebre sembra debba spettare quasi interamente al dotto abate Longano: egli, infatti, nel corso del XVIII secolo, percorse in lungo e in largo la Capitanata per studio e per diporto e, più volte, ebbe anche occasione di fare delle soste a Foggia, riportandone, però, esperienze da cui sarebbe rimasto profondamente segnato per sempre, se si deve giudicare da quanto venne scrivendo, di lì a poco, sul Capoluogo daunio, nei suoi Viaggi per lo Regno di Napoli, una sorta di "Guida Michelin" dell'epoca. Ebbene, alla voce "Foggia" questa guida non riportava neppure una stella di qualità, anzi, secondo il compilatore, innumerevoli erano i disagi ed i pericoli in agguato nella città e pronti ad aggredire l'incauto visitatore: aria mefitica, sporcizia dilagante, locande scomode ed inospitali e, ancora, caldo insopportabile, fetori ripugnanti, zanzare ed ogni altra sorta di insetti, oppure, freddo intenso, umidità perniciosa, febbre terzana. Ma ciò contro cui metteva in guardia l'invelenito abate, era l'indole perversa degli abitanti: svogliati ed insolenti gli uomini, ma anche violenti e consumati da insana passione per vino, gioco d'azzardo e furto; focose le donne, ladre pure esse e soprattutto inclini alla lascivia godereccia. Su quest'ultimo particolare, poi, quasi a perfezionare, con un ultimo sapiente tocco, il proprio capolavoro di sistematica demolizione della città, il Longano si intratteneva, raccontando, con piccanti dettagli, l'esperienza di un suo pellegrinaggio, l'ultima domenica di aprile, all'Incoronata, dove aveva potuto constatare come la popolazione femminile foggiana, vibrante di passione per gli incipienti tepori primaverili, praticasse in quel sacro bosco ben altre devozioni che quelle religiose e si dedicasse, invece, con trasporto e consumata esperienza al soddisfacimento di ogni sorta di appetiti, sino al ritorno in città che, per il modo in cui avveniva, somigliava più al corteo di sfrenate baccanti, che non alla processione di pie pellegrine. Così, Foggia veniva liquidata per sempre e l'abate si toglieva, finalmente, dalla scarpa il sassolino che, da tempo, vi giaceva.
Un ritratto tanto nefasto, comunque, non è da credere che fosse solo la conseguenza delle idiosincrasie o delle sfortunate esperienze personali del Longano, perché impressioni negative analoghe alle sue ricorrono anche nelle memorie dei viaggiatori italiani e stranieri che nel corso di '700 e '800 si trovarono a passare per il Capoluogo daunio. Ebbene, dalle loro pagine affiora una città del tutto differente da quella che ci hanno rappresentato gli storici locali, facendosi interpreti delle aspirazioni municipalistiche di una borghesia ristretta e frustrata: non un centro urbano ricco ed elegante, quindi, ma soltanto un labirinto di strade e viuzze indecenti e un'accozzaglia informe di case basse e sordide, dove conduceva la sua esistenza povera e piatta una becera umanità.
Il viaggiatore, appena entrato in città, sia che provenisse da nord, da sud, da est o da ovest, veniva immediatamente colto, guardandosi intorno, da una spiacevole sensazione di precarietà, di disordine, di sporcizia: ne restarono addirittura sconcertati i turisti francesi che, poco distratti, a differenza dei colleghi inglesi e tedeschi, dalle romantiche impronte sveve, erano più critici osservatori di quelle dei contemporanei. Léon Palustre de Montifaut, il celebre archeologo, scrisse, ai primi dell'Ottocento, nel suo Da Parigi a Sibari: "Foggia dà a prima vista l'impressione di un immenso accampamento. Tutte le case sono basse, sporche e sono dimora della gente di campagna che costituisce la maggior parte della popolazione"; un giudizio sfavorevole, ma meno severo, in definitiva, di quello di Cesare Malpica che, una trentina di anni prima, ne Il giardino di Italia, aveva definito le case dei Foggiani "covili sudici e tenebrosi", oppure di Giuseppe Ceva Grimaldi, il quale, nell'Itinerario da Napoli a Lecce, non aveva usato mezze misure nel descrivere la città. Tra le altre brutture sue peculiari, aveva fatto, in particolare, notare come le strade, tracciate sommariamente e costruite senza quelle pendenze laterali necessarie a raccogliere e fare scorrere via acque piovane e rifiuti liquidi, si trasformassero con grande frequenza in una indecente fanghiglia, nella quale, in mezzo ad ogni sorta di indescrivibili presenze, sguazzavano tranquillamente maiali, galli, galline, anatre. Questa fastidiosa e repellente circostanza scatenò anche l'irritato sarcasmo della scrittrice Juliette Figuier che, esasperata da quella melma dilagante, nella quale, non solo, affondava sino alle caviglie, ma era pure costretta a saltellare poco dignitosamente, sollevando le gonne, a causa delle innumerevoli pozzanghere e degli onnipresenti animali da cortile di ogni misura e specie, fuggì, ad un certo punto, da Foggia, non senza averla prima immortalata, ne L'Italie d'après nature, "regno per eccellenza dei porci e dei polli". Più tenace di lei o, forse, più sognatore, Paul Bourget, poeta e saggista, trovò, invece, nel fascino delle vestigia federiciane un motivo per resistere al fango; l'arco di Federico II, però, non fu sufficiente a fargli vincere l’"infamia degli alberghi e la sordidezza delle vetture", cui dedicò un istruttivo brano foggiano delle sue Sensations d'Italie. Così, alla fine, anche lui fece tempestosamente le valigie per lidi più ospitali.
La situazione non offriva spiragli di miglioramento con il sopraggiungere della buona stagione e dell'estate: ai pantani subentrava un altro disagio, forse anche più pericoloso, il torrido sole foggiano, contro il quale le strade larghe, senza alberi, costeggiate da case basse non erano in grado di offrire il benché minimo riparo. Percorrerle, quindi, specialmente nelle ore diurne, metteva sull'avviso, ai primi dell'800, il frate naturalista Michelangelo Manicone, nella Fisica Appula, significava esporsi al rischio di beccarsi il "causone", noto anche come "chiodo solare", una febbre insistente, capace di condurre alla tomba anche l'uomo più robusto. Un buon alibi, comunque, per la proverbiale infingardaggine dei Foggiani, contro la quale si spuntarono le richieste, dapprima insistenti poi accorate, del pur caparbio Charles Yriarte, giornalista parigino, che, alla fine, rassegnato a non poter penetrare la corazza della pigrizia locale, si sfogò nelle pagine de Le Rive dell'Adriatico, mettendo precauzionalmente in guardia ognuno dal venire in Foggia, terra della poltroneria, perché, avvertiva, "tutto si chiude in questa città da un'ora e le vie rimangono deserte; le botteghe non si riaprono più sino alla fine della giornata e per molte ore è impossibile comperar puranco un francobollo o un sigaro". Il caldo e, in particolare, l'assenza di piogge, unico sistema allora in uso per lo smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi urbani, causavano, però, anche altri disagi: rendevano meglio visibili nelle strade tutte le sconcezze che stalle, macellerie, pescherie e popolazione vi scaricavano a getto continuo e, soprattutto, ammorbavano l'aria tutto intorno. Il fetore, appunto, oltre alla sporcizia è l'altra caratteristica che colpiva quanti giungevano a Foggia: un puzzo opprimente aleggiava sull'abitato e, se si entrava nelle abitazioni, non scompariva, bensì si mescolava ad essenze ancora più nauseabonde. La causa di fenomeni tanto fastidiosamente aggressivi da offendere le raffinate narici del conte Friedrich Leopold Stolberg, letterato tedesco di passaggio per il Capoluogo daunio alla fine del '700, e da indurlo, come egli ricorda nel suo Viaggio in Italia, alla fuga soltanto poche ore dopo il proprio arrivo, viene chiarita dal Manicone. Egli, infatti, spiega che fuori della città si estendevano per largo tratto i così detti "saldoni", distese di terra mai solcate dall'aratro, sulle quali, nel corso dei secoli, si era ammassato lo sterco di innumerevoli ovini, bovini, equini, con conseguenze pestilenziali, soprattutto quando il centro abitato si trovava sottovento; nelle case, invece, le esalazioni mefitiche provenivano dal "comune" che, in alternativa alla campagna, era, allora, il servizio igienico più diffuso in città: una sorta di pozzo nero molto sommario, i cui effluvi, dovuti ai depositi organici mai rimossi di intere generazioni, solo leggermente erano attenuati dalla polvere di carbone e dalla terra umida usati a tale scopo dai proprietari.
Dalla sporcizia e dal fetore onnipresenti non andavano esenti neppure le locande e gli alberghi, ai quali, pure, era affidato il delicato compito di presentare il biglietto da visita della città presso quei visitatori che, per la prima volta, vi fossero giunti. Ne fece le spese oltre a Paul Bourget, la già citata Juliette Figuier, cui Foggia, sicuramente non menzionata nei già diffusi "Baedeker", dovette fare l'effetto sgradevole di una esperienza allucinante. Annotò nei suoi appunti: "La città non possiede che locande proprio miserabili. Quella in cui scendiamo, che è la migliore, sarebbe tutt'al più buona per dei carrettieri. Ci è impossibile toccare la minestra o la carne che ci presentano. Qui, poi, i tovaglioli li passano, senza mai esser messi al bucato, da un viaggiatore all'altro. Le posate sono unte, la tavola è poco pulita, i sughi sono pieni di mosche e il soffitto di ragnatele". Ma il peggio doveva ancora arrivare e si presentò puntuale, quando la Figuier, alle prese con particolari del servizio attinenti ad una sfera più intima della persona, sbottò: "in questo paese mezzo barbaro, la pulizia è lettera morta, come anche il pudore. I recipienti per l'acqua, e ogni altro oggetto necessario alle cure della toilette sono qui sconosciuti". In conclusione, la povera francesina fu costretta a mettere mano al borsellino per avere da un'incredula e attonita cameriera indigena acqua pulita tutte le mattine e, soprattutto, per potere usare, quando le necessità fisiologiche lo richiedevano, con relativa serenità quel servizio igienico che, essendo l'unico della locanda ed essendo considerato pubblico, ossia accessibile pure ai passanti, rappresentava quasi un porto di mare, dove a tutti era lecito approdare, con conseguenze facilmente immaginabili, sia per l'intimità necessaria in certi delicati momenti, sia per i sorprendenti ritrovamenti che la famosa sporcizia di Foggia poteva riservare. Nelle locande foggiane, però, si lamentarono Matilde Perrino ne La Puglia del '700 e un suo contemporaneo, il tedesco Carlo Ulisse de Salis von Marschlins, autore del Viaggio nel Regno di Napoli, non era neppure consentito riposare, perché, ebbe a scrivere più diffusamente Giuseppe Ceva Grimaldi, "l’infelice viaggiatore che vi arriva è ricevuto alla soglia di esse da falangi di insetti che il clima genera e che il sudiciume delle stanze e de' mobili moltiplica. Se, poi, la stanchezza ed il sonno l'obbligano a gittarsi sul letto scomodissimo, allora quelle piccole arpie corrono a divorarlo; ed in vece di riparar le sue forze con dolce riposo, egli è costretto a balzar via disperato dal letto inospitale".
1 - continua.
La risposta all'interrogativo si trova in un bel saggio pubblicato nel 1987 dalla rivista della Bibloteca Provinciale di Foggia, La Capitanata, a firma di Antonio Ventura, saggista e cultore di storia locale che, prima di godersi la meritata pensione, ha diretto per molti anni con competenza e passione la sezione dei fondi speciali della Biblioteca, che custodisce appunto i materiali storici e documentari d'interesse provinciale.
Il saggio è intitolato "Fuggi da Foggia! La città vista dagli altri, nel Settecento e nell'Ottocento". L'ottimo Ventura avanza una ipotesi circa l'origine del modo di dire: a coniarlo potrebbe essere stato proprio uno dei molti viaggiatori che tra il '700 e l' '800 visitarono la città, quasi sempre offrendone un racconto assai poco edificante.
In particolare, si tratterebbe di Francesco Longano, un religioso originario del Molise teologo, filosofo ed economista, vissuto nel Settecento, che si segnalò per le sue idee illuministe, ed ebbe diversi problemi con le autorità religiose dell'epoca.
Come si legge nella quarta di copertina del volume Viaggi per lo Regno di Napoli (che continene anche il Viaggio per la Capitanata cui fa riferimento Ventura) Francesco Longano, allievo di Genovesi, apre, nelle sue opere, una riflessione importante sulla condizione umana. Nei Viaggi per lo Contado di Molise e per la Capitanata, compiuti tra il 1786 e il 1790, da acuto osservatore politico, segnala lo stato di abbandono, miseria, sottosviluppo in cui versa il Mezzogiorno e le ragioni che lo hanno determinato. Longano, allora, si sforza di fornire al sovrano una serie di saperi utili a pianificare la sua azione di governo, mostrandosi assolutamente convinto che la pratica riformatrice sia inadeguata e inefficace a realizzare ogni possibile trasformazione della complessa realtà meridionale.
Il saggio di Ventura rilegge criticamente quanto hanno scritto di Foggia i numerosi reporter che vi viaggiarono nel corso di due secoli. E si tratta di una lettura utilissima anche per quanti vivono oggi nel capoluogo della Capitanata e non sanno se restare o andar via.
Lettere Meridiane propone il saggio a puntate.
* * *
"Fuggi da Foggia!", così suona un beffardo gioco di parole a tutti noto, che, divenuto proverbiale nel 1700, si è mantenuto intatto sino ad oggi nell'uso popolare pugliese e meridionale con tutta la sua aggressiva carica di ingiuria irriverente. Il "merito" di averlo reso celebre sembra debba spettare quasi interamente al dotto abate Longano: egli, infatti, nel corso del XVIII secolo, percorse in lungo e in largo la Capitanata per studio e per diporto e, più volte, ebbe anche occasione di fare delle soste a Foggia, riportandone, però, esperienze da cui sarebbe rimasto profondamente segnato per sempre, se si deve giudicare da quanto venne scrivendo, di lì a poco, sul Capoluogo daunio, nei suoi Viaggi per lo Regno di Napoli, una sorta di "Guida Michelin" dell'epoca. Ebbene, alla voce "Foggia" questa guida non riportava neppure una stella di qualità, anzi, secondo il compilatore, innumerevoli erano i disagi ed i pericoli in agguato nella città e pronti ad aggredire l'incauto visitatore: aria mefitica, sporcizia dilagante, locande scomode ed inospitali e, ancora, caldo insopportabile, fetori ripugnanti, zanzare ed ogni altra sorta di insetti, oppure, freddo intenso, umidità perniciosa, febbre terzana. Ma ciò contro cui metteva in guardia l'invelenito abate, era l'indole perversa degli abitanti: svogliati ed insolenti gli uomini, ma anche violenti e consumati da insana passione per vino, gioco d'azzardo e furto; focose le donne, ladre pure esse e soprattutto inclini alla lascivia godereccia. Su quest'ultimo particolare, poi, quasi a perfezionare, con un ultimo sapiente tocco, il proprio capolavoro di sistematica demolizione della città, il Longano si intratteneva, raccontando, con piccanti dettagli, l'esperienza di un suo pellegrinaggio, l'ultima domenica di aprile, all'Incoronata, dove aveva potuto constatare come la popolazione femminile foggiana, vibrante di passione per gli incipienti tepori primaverili, praticasse in quel sacro bosco ben altre devozioni che quelle religiose e si dedicasse, invece, con trasporto e consumata esperienza al soddisfacimento di ogni sorta di appetiti, sino al ritorno in città che, per il modo in cui avveniva, somigliava più al corteo di sfrenate baccanti, che non alla processione di pie pellegrine. Così, Foggia veniva liquidata per sempre e l'abate si toglieva, finalmente, dalla scarpa il sassolino che, da tempo, vi giaceva.
Un ritratto tanto nefasto, comunque, non è da credere che fosse solo la conseguenza delle idiosincrasie o delle sfortunate esperienze personali del Longano, perché impressioni negative analoghe alle sue ricorrono anche nelle memorie dei viaggiatori italiani e stranieri che nel corso di '700 e '800 si trovarono a passare per il Capoluogo daunio. Ebbene, dalle loro pagine affiora una città del tutto differente da quella che ci hanno rappresentato gli storici locali, facendosi interpreti delle aspirazioni municipalistiche di una borghesia ristretta e frustrata: non un centro urbano ricco ed elegante, quindi, ma soltanto un labirinto di strade e viuzze indecenti e un'accozzaglia informe di case basse e sordide, dove conduceva la sua esistenza povera e piatta una becera umanità.
Il viaggiatore, appena entrato in città, sia che provenisse da nord, da sud, da est o da ovest, veniva immediatamente colto, guardandosi intorno, da una spiacevole sensazione di precarietà, di disordine, di sporcizia: ne restarono addirittura sconcertati i turisti francesi che, poco distratti, a differenza dei colleghi inglesi e tedeschi, dalle romantiche impronte sveve, erano più critici osservatori di quelle dei contemporanei. Léon Palustre de Montifaut, il celebre archeologo, scrisse, ai primi dell'Ottocento, nel suo Da Parigi a Sibari: "Foggia dà a prima vista l'impressione di un immenso accampamento. Tutte le case sono basse, sporche e sono dimora della gente di campagna che costituisce la maggior parte della popolazione"; un giudizio sfavorevole, ma meno severo, in definitiva, di quello di Cesare Malpica che, una trentina di anni prima, ne Il giardino di Italia, aveva definito le case dei Foggiani "covili sudici e tenebrosi", oppure di Giuseppe Ceva Grimaldi, il quale, nell'Itinerario da Napoli a Lecce, non aveva usato mezze misure nel descrivere la città. Tra le altre brutture sue peculiari, aveva fatto, in particolare, notare come le strade, tracciate sommariamente e costruite senza quelle pendenze laterali necessarie a raccogliere e fare scorrere via acque piovane e rifiuti liquidi, si trasformassero con grande frequenza in una indecente fanghiglia, nella quale, in mezzo ad ogni sorta di indescrivibili presenze, sguazzavano tranquillamente maiali, galli, galline, anatre. Questa fastidiosa e repellente circostanza scatenò anche l'irritato sarcasmo della scrittrice Juliette Figuier che, esasperata da quella melma dilagante, nella quale, non solo, affondava sino alle caviglie, ma era pure costretta a saltellare poco dignitosamente, sollevando le gonne, a causa delle innumerevoli pozzanghere e degli onnipresenti animali da cortile di ogni misura e specie, fuggì, ad un certo punto, da Foggia, non senza averla prima immortalata, ne L'Italie d'après nature, "regno per eccellenza dei porci e dei polli". Più tenace di lei o, forse, più sognatore, Paul Bourget, poeta e saggista, trovò, invece, nel fascino delle vestigia federiciane un motivo per resistere al fango; l'arco di Federico II, però, non fu sufficiente a fargli vincere l’"infamia degli alberghi e la sordidezza delle vetture", cui dedicò un istruttivo brano foggiano delle sue Sensations d'Italie. Così, alla fine, anche lui fece tempestosamente le valigie per lidi più ospitali.
La situazione non offriva spiragli di miglioramento con il sopraggiungere della buona stagione e dell'estate: ai pantani subentrava un altro disagio, forse anche più pericoloso, il torrido sole foggiano, contro il quale le strade larghe, senza alberi, costeggiate da case basse non erano in grado di offrire il benché minimo riparo. Percorrerle, quindi, specialmente nelle ore diurne, metteva sull'avviso, ai primi dell'800, il frate naturalista Michelangelo Manicone, nella Fisica Appula, significava esporsi al rischio di beccarsi il "causone", noto anche come "chiodo solare", una febbre insistente, capace di condurre alla tomba anche l'uomo più robusto. Un buon alibi, comunque, per la proverbiale infingardaggine dei Foggiani, contro la quale si spuntarono le richieste, dapprima insistenti poi accorate, del pur caparbio Charles Yriarte, giornalista parigino, che, alla fine, rassegnato a non poter penetrare la corazza della pigrizia locale, si sfogò nelle pagine de Le Rive dell'Adriatico, mettendo precauzionalmente in guardia ognuno dal venire in Foggia, terra della poltroneria, perché, avvertiva, "tutto si chiude in questa città da un'ora e le vie rimangono deserte; le botteghe non si riaprono più sino alla fine della giornata e per molte ore è impossibile comperar puranco un francobollo o un sigaro". Il caldo e, in particolare, l'assenza di piogge, unico sistema allora in uso per lo smaltimento dei rifiuti liquidi e solidi urbani, causavano, però, anche altri disagi: rendevano meglio visibili nelle strade tutte le sconcezze che stalle, macellerie, pescherie e popolazione vi scaricavano a getto continuo e, soprattutto, ammorbavano l'aria tutto intorno. Il fetore, appunto, oltre alla sporcizia è l'altra caratteristica che colpiva quanti giungevano a Foggia: un puzzo opprimente aleggiava sull'abitato e, se si entrava nelle abitazioni, non scompariva, bensì si mescolava ad essenze ancora più nauseabonde. La causa di fenomeni tanto fastidiosamente aggressivi da offendere le raffinate narici del conte Friedrich Leopold Stolberg, letterato tedesco di passaggio per il Capoluogo daunio alla fine del '700, e da indurlo, come egli ricorda nel suo Viaggio in Italia, alla fuga soltanto poche ore dopo il proprio arrivo, viene chiarita dal Manicone. Egli, infatti, spiega che fuori della città si estendevano per largo tratto i così detti "saldoni", distese di terra mai solcate dall'aratro, sulle quali, nel corso dei secoli, si era ammassato lo sterco di innumerevoli ovini, bovini, equini, con conseguenze pestilenziali, soprattutto quando il centro abitato si trovava sottovento; nelle case, invece, le esalazioni mefitiche provenivano dal "comune" che, in alternativa alla campagna, era, allora, il servizio igienico più diffuso in città: una sorta di pozzo nero molto sommario, i cui effluvi, dovuti ai depositi organici mai rimossi di intere generazioni, solo leggermente erano attenuati dalla polvere di carbone e dalla terra umida usati a tale scopo dai proprietari.
Dalla sporcizia e dal fetore onnipresenti non andavano esenti neppure le locande e gli alberghi, ai quali, pure, era affidato il delicato compito di presentare il biglietto da visita della città presso quei visitatori che, per la prima volta, vi fossero giunti. Ne fece le spese oltre a Paul Bourget, la già citata Juliette Figuier, cui Foggia, sicuramente non menzionata nei già diffusi "Baedeker", dovette fare l'effetto sgradevole di una esperienza allucinante. Annotò nei suoi appunti: "La città non possiede che locande proprio miserabili. Quella in cui scendiamo, che è la migliore, sarebbe tutt'al più buona per dei carrettieri. Ci è impossibile toccare la minestra o la carne che ci presentano. Qui, poi, i tovaglioli li passano, senza mai esser messi al bucato, da un viaggiatore all'altro. Le posate sono unte, la tavola è poco pulita, i sughi sono pieni di mosche e il soffitto di ragnatele". Ma il peggio doveva ancora arrivare e si presentò puntuale, quando la Figuier, alle prese con particolari del servizio attinenti ad una sfera più intima della persona, sbottò: "in questo paese mezzo barbaro, la pulizia è lettera morta, come anche il pudore. I recipienti per l'acqua, e ogni altro oggetto necessario alle cure della toilette sono qui sconosciuti". In conclusione, la povera francesina fu costretta a mettere mano al borsellino per avere da un'incredula e attonita cameriera indigena acqua pulita tutte le mattine e, soprattutto, per potere usare, quando le necessità fisiologiche lo richiedevano, con relativa serenità quel servizio igienico che, essendo l'unico della locanda ed essendo considerato pubblico, ossia accessibile pure ai passanti, rappresentava quasi un porto di mare, dove a tutti era lecito approdare, con conseguenze facilmente immaginabili, sia per l'intimità necessaria in certi delicati momenti, sia per i sorprendenti ritrovamenti che la famosa sporcizia di Foggia poteva riservare. Nelle locande foggiane, però, si lamentarono Matilde Perrino ne La Puglia del '700 e un suo contemporaneo, il tedesco Carlo Ulisse de Salis von Marschlins, autore del Viaggio nel Regno di Napoli, non era neppure consentito riposare, perché, ebbe a scrivere più diffusamente Giuseppe Ceva Grimaldi, "l’infelice viaggiatore che vi arriva è ricevuto alla soglia di esse da falangi di insetti che il clima genera e che il sudiciume delle stanze e de' mobili moltiplica. Se, poi, la stanchezza ed il sonno l'obbligano a gittarsi sul letto scomodissimo, allora quelle piccole arpie corrono a divorarlo; ed in vece di riparar le sue forze con dolce riposo, egli è costretto a balzar via disperato dal letto inospitale".
1 - continua.
Commenti
"Detto attribuito a Federico II, poichè fu tradito dai foggiani. Federico voleva rendere Foggia capitale del Regno ma sotto la religione protestante del regno di Germania, poichè fu contestato dal clero foggiano e non ebbe neanche l'appoggio dei cittadini foggiani, rinunciò al suo progetto dando origine a questo detto"!! Dov'è la verità? grazie in anticipo
La famosa frase fu pronunciata da Federico II perché Foggia era destinata a diventare una delle sue molteplici residenze del Sud Italia.
I cittadini foggiani, approfittando dell'assenza di Federico II, durante una delle sue tante ambasciate, ripresero il potere della città.
Federico II, di ritorno a Foggia, rendendosi conto del tradimento del popolo foggiano
disse: "Fuggi da Foggia, non per la città ma per i foggiani".
Questa frase non ha alcun connotato negativo, contrariamente a quanto si creda.
Solo andria, denominata poi dallo stesso federico fedelis andria, diede dimostrazioni di fedeltà.
Purtroppo se ancora oggi i vari viaggiatori citano questa frase forse qualche motivo c'è.
È brutto dirlo ma l'ospitalità a fg a volte non rientra nemmeno negli optional
Saluti....
Fernando FALEO