Il Sud è il futuro del mondo. Ma bisogna cambiare la filosofia dello sviluppo.
Il Pd che non t’aspetti sta acquattato in un angolo di piazza Battisti, in un gazebo attraversato dalle grida dei bambini che giocano all’esterno e sferzato da raffiche di favonio che non promettono niente di buono.
Promette invece tanto di interessante la serata conclusiva della festa de L’Unità, grazie alla sfavillante intuizione di Roberta Sassano, che ha riunito attorno al tavolo a ragionare di Orizzonti e visioni di Sud il poeta paesologo Franco Arminio e il ricercatore Svimez Peppe Provenzano.
Messo così sembrerebbe un confronto tra parola e numeri, tra possibilità e concretezza. Alla fine l'incontro si rivela un crogiuolo di tensione ideale, testimonia un bisogno di politica che torna ad occuparsi di futuro e a sorreggere la costruzione del futuro.
Il tema - volutamente sfuggente (orizzonti sono futuro, ma anche visione dall’alto; visioni sono dati di fatto, ma anche sogni) - suggerisce digressioni, sollecita utopie, ma la ricca serata restituisce alla fine l’immagine di un Mezzogiorno ricco di risorse e di futuro.
Se solo la politica se ne accorgesse.
Il gazebo è affollato di iscritti e non. Dagli sguardi puoi coglierlo tangibile questo ritrovato desiderio di ascoltare, capire e riflettere e discutere.
I due relatori non si tirano indietro. Parlano fitto. Sono flussi di coscienza più che ragionamenti, e mi piace racconterveli così.
PEPPE PROVENZANO
Ci vuole la visione per definire un orizzonte. Ma da un pezzo manca una visione, perché non guardiamo più il Sud. Abbiamo giocato per troppo tempo alle secessioni in questo Paese. Il Sud è diventato il luogo comune di ogni vizio italico, con politiche che sono diventate sempre più antimeridonali.
C’è stata una crescente ostilità verso il Mezzogiorno che è nata sui grandi giornali, che si occupano di Sud solo come luogo della cronaca. Il fondamentalismo liberista degli ultimi anni ha innescato una competizione tra i territori che ha penalizzato il Sud, divenuto un luogo avulso dalla storia e dalla geografia. Come se non fosse il modello di sviluppo stesso che produce diseguaglianze sociali, ma anche territoriali.
Il Mezzogiorno ci ha però messo del suo, avvitandosi nel dibattito se sia colpa nostra o colpa degli altri, senza comprendere che per mettere a fuoco una visione del Sud non bisogna guardare solo al Sud. C’è un contesto macroeconomico che spinge le aree più deboli verso una condizione di marginalità. Le politiche comunitarie per i loro vincoli eccessivi finanziano una competizione viziosa tra i territori.
Il Sud ha invece necessità di raccontarsi, di mettere a punto una visione che gli consenta di raccontarsi e di costruire l’orizzonte.
L’orizzonte non può che partire dall’esigenza di un modello di sviluppo diverso: una diversa distribuzione della ricchezza, una nuova geografia dello sviluppo, una nuova distribuzione del lavoro, un nuovo bisogno di cosa pubblica nel governo dell’economia.
In un simile scenario, il Sud può essere rimesso al centro, puntando sulla ricerca (per esempio un centro di ricerca in ogni distretto in crisi), puntando su un agroalimentare di qualità fondato sull’integrazione vera col resto dell’economia e non sulla competizione al ribasso; puntando all’industria culturale, alla rigenerazione delle aree urbane che nel Mezzogiorno stanno conoscendo una situazione che non si riscontra da nessuna parte: nel resto del mondo attraggono, nel Mezzogiorno spingono alla fuga.
Il punto è che visione ed orizzonti non si trovano scritti da nessuna parte: la programmazione dell’Europa comunitaria è fumosa, astratta, puramente metodologica, mancano i bisogni veri, le persone. È assente una discussione pubblica e politica. È necessaria una terapia d’urto che deve vedere protagoniste la politica, le forze sociali, come accadde nel dopoguerra, quando con i suoi braccianti, con la sua gente, i meridionali furono protagonisti della ricostruzione del Paese.
FRANCO ARMINIO
Questi bambini che giocano fuori, le loro grida, questo vento mi danno una sensazione di evanescenza, di fragilità. Ma il Sud c’è ancora. Non c’è il popolo evocato da Provenzano, ma c’è il paesaggio. Manca la politica e perciò le esperienze si perdono, manca il racconto. Per questo si devono trovare punti di riferimento come Antonio Facenna, l’allevatore di 25 anni ucciso dall’alluvione del Gargano mentre andava a portare aiuto alle sue vacche.
Facenna è morto da eroe e deve diventare il nostro eroe, uno di noi: come tutti quelli che lavorano nei campi, che fanno il formaggio, che sanno accarezzare la pancia di una pecora o mungere il latte, o che perdono il lavoro. Devono essere i nostri eroi, devono esserci molto cari, e la politica deve riprendere la sua funzione di sostegno nei confronti di chi non ce la fa.
I dati sono drammatici: però c’è una luce nel Mezzogiorno che non c’è in nessun’altra parte del mondo e una forza che non c’è in nessun’altra parte del mondo. Basta con gli scoraggiatori militanti. Dobbiamo essere più orgogliosi del nostro stare qui. Dobbiamo ribaltare il punto di vista: se la modernità crollasse, gli sventurati sarebbero a Bruxelles e non in un Mezzogiorno che può attingere alla sua dimensione arcaica.
Il Sud è il futuro del mondo. Biccari è fondamentale come Bruxelles. Non siamo il problema dell’Europa. Il linguaggio dell'economia non è il nostro linguaggio. Abbiamo ancora tanta tanta terra. Puoi mangiare un pane che non trovi in nessun altra parte, il caciocavallo podolico.
Il Sud è poesia ma è la politica incapace di incrociarsi con la poesia.
Noi possiamo esportare visioni. Possediamo un capitale relazionale ancora formidabile, possiamo costruire un mondo in cui semplicemente si sta bene insieme. Dobbiamo impegnarci in piccole azioni di manutenzione civile. Il problema sono Milano, Roma così brutte (dal pubblico: e Foggia?)
Foggia non è una città bella, ma deve capire che ha il Gargano, i Monti Dauni. E noi dobbiamo far girare questi Sud. Dobbiamo amare di più i nostri posti. Se li avessimo amati non avremmo consentito lo scempio del paesaggio con le pale eoliche; al limite le pale le avremmo messe noi, e oggi saremmo ricchi. Computer e pelo selvatico, intimità e distanza: il futuro del Mezzogiorno sta in questi equilibri.
La serata si conclude con la premiazione dei vincitori del concorso fotografico dedicato alle feste democratiche che si sono svolte durante l'estate. Anche queste foto sono un modo di raccontarsi.
Erano anni che non mi succedeva di sentire concetti così densi. E mi accorgo che erano anni che non sentivo più parlare di Mezzogiorno.
L’altro Pd sta fuori, neanche s’affaccia al gazebo. Aspetta impaziente l’arrivo dei big che concluderanno la festa con parole che voleranno nella notte sorrette dal favonio. Quelle di Arminio e di Provenzano ce le porteremo dentro. Chissà che un giorno non sprigionino una politica nuova.
Promette invece tanto di interessante la serata conclusiva della festa de L’Unità, grazie alla sfavillante intuizione di Roberta Sassano, che ha riunito attorno al tavolo a ragionare di Orizzonti e visioni di Sud il poeta paesologo Franco Arminio e il ricercatore Svimez Peppe Provenzano.
Messo così sembrerebbe un confronto tra parola e numeri, tra possibilità e concretezza. Alla fine l'incontro si rivela un crogiuolo di tensione ideale, testimonia un bisogno di politica che torna ad occuparsi di futuro e a sorreggere la costruzione del futuro.
Il tema - volutamente sfuggente (orizzonti sono futuro, ma anche visione dall’alto; visioni sono dati di fatto, ma anche sogni) - suggerisce digressioni, sollecita utopie, ma la ricca serata restituisce alla fine l’immagine di un Mezzogiorno ricco di risorse e di futuro.
Se solo la politica se ne accorgesse.
Il gazebo è affollato di iscritti e non. Dagli sguardi puoi coglierlo tangibile questo ritrovato desiderio di ascoltare, capire e riflettere e discutere.
I due relatori non si tirano indietro. Parlano fitto. Sono flussi di coscienza più che ragionamenti, e mi piace racconterveli così.
PEPPE PROVENZANO
Ci vuole la visione per definire un orizzonte. Ma da un pezzo manca una visione, perché non guardiamo più il Sud. Abbiamo giocato per troppo tempo alle secessioni in questo Paese. Il Sud è diventato il luogo comune di ogni vizio italico, con politiche che sono diventate sempre più antimeridonali.
C’è stata una crescente ostilità verso il Mezzogiorno che è nata sui grandi giornali, che si occupano di Sud solo come luogo della cronaca. Il fondamentalismo liberista degli ultimi anni ha innescato una competizione tra i territori che ha penalizzato il Sud, divenuto un luogo avulso dalla storia e dalla geografia. Come se non fosse il modello di sviluppo stesso che produce diseguaglianze sociali, ma anche territoriali.
Il Mezzogiorno ci ha però messo del suo, avvitandosi nel dibattito se sia colpa nostra o colpa degli altri, senza comprendere che per mettere a fuoco una visione del Sud non bisogna guardare solo al Sud. C’è un contesto macroeconomico che spinge le aree più deboli verso una condizione di marginalità. Le politiche comunitarie per i loro vincoli eccessivi finanziano una competizione viziosa tra i territori.
Il Sud ha invece necessità di raccontarsi, di mettere a punto una visione che gli consenta di raccontarsi e di costruire l’orizzonte.
L’orizzonte non può che partire dall’esigenza di un modello di sviluppo diverso: una diversa distribuzione della ricchezza, una nuova geografia dello sviluppo, una nuova distribuzione del lavoro, un nuovo bisogno di cosa pubblica nel governo dell’economia.
In un simile scenario, il Sud può essere rimesso al centro, puntando sulla ricerca (per esempio un centro di ricerca in ogni distretto in crisi), puntando su un agroalimentare di qualità fondato sull’integrazione vera col resto dell’economia e non sulla competizione al ribasso; puntando all’industria culturale, alla rigenerazione delle aree urbane che nel Mezzogiorno stanno conoscendo una situazione che non si riscontra da nessuna parte: nel resto del mondo attraggono, nel Mezzogiorno spingono alla fuga.
Il punto è che visione ed orizzonti non si trovano scritti da nessuna parte: la programmazione dell’Europa comunitaria è fumosa, astratta, puramente metodologica, mancano i bisogni veri, le persone. È assente una discussione pubblica e politica. È necessaria una terapia d’urto che deve vedere protagoniste la politica, le forze sociali, come accadde nel dopoguerra, quando con i suoi braccianti, con la sua gente, i meridionali furono protagonisti della ricostruzione del Paese.
FRANCO ARMINIO
Questi bambini che giocano fuori, le loro grida, questo vento mi danno una sensazione di evanescenza, di fragilità. Ma il Sud c’è ancora. Non c’è il popolo evocato da Provenzano, ma c’è il paesaggio. Manca la politica e perciò le esperienze si perdono, manca il racconto. Per questo si devono trovare punti di riferimento come Antonio Facenna, l’allevatore di 25 anni ucciso dall’alluvione del Gargano mentre andava a portare aiuto alle sue vacche.
Facenna è morto da eroe e deve diventare il nostro eroe, uno di noi: come tutti quelli che lavorano nei campi, che fanno il formaggio, che sanno accarezzare la pancia di una pecora o mungere il latte, o che perdono il lavoro. Devono essere i nostri eroi, devono esserci molto cari, e la politica deve riprendere la sua funzione di sostegno nei confronti di chi non ce la fa.
I dati sono drammatici: però c’è una luce nel Mezzogiorno che non c’è in nessun’altra parte del mondo e una forza che non c’è in nessun’altra parte del mondo. Basta con gli scoraggiatori militanti. Dobbiamo essere più orgogliosi del nostro stare qui. Dobbiamo ribaltare il punto di vista: se la modernità crollasse, gli sventurati sarebbero a Bruxelles e non in un Mezzogiorno che può attingere alla sua dimensione arcaica.
Il Sud è il futuro del mondo. Biccari è fondamentale come Bruxelles. Non siamo il problema dell’Europa. Il linguaggio dell'economia non è il nostro linguaggio. Abbiamo ancora tanta tanta terra. Puoi mangiare un pane che non trovi in nessun altra parte, il caciocavallo podolico.
Il Sud è poesia ma è la politica incapace di incrociarsi con la poesia.
Noi possiamo esportare visioni. Possediamo un capitale relazionale ancora formidabile, possiamo costruire un mondo in cui semplicemente si sta bene insieme. Dobbiamo impegnarci in piccole azioni di manutenzione civile. Il problema sono Milano, Roma così brutte (dal pubblico: e Foggia?)
Foggia non è una città bella, ma deve capire che ha il Gargano, i Monti Dauni. E noi dobbiamo far girare questi Sud. Dobbiamo amare di più i nostri posti. Se li avessimo amati non avremmo consentito lo scempio del paesaggio con le pale eoliche; al limite le pale le avremmo messe noi, e oggi saremmo ricchi. Computer e pelo selvatico, intimità e distanza: il futuro del Mezzogiorno sta in questi equilibri.
La serata si conclude con la premiazione dei vincitori del concorso fotografico dedicato alle feste democratiche che si sono svolte durante l'estate. Anche queste foto sono un modo di raccontarsi.
Erano anni che non mi succedeva di sentire concetti così densi. E mi accorgo che erano anni che non sentivo più parlare di Mezzogiorno.
L’altro Pd sta fuori, neanche s’affaccia al gazebo. Aspetta impaziente l’arrivo dei big che concluderanno la festa con parole che voleranno nella notte sorrette dal favonio. Quelle di Arminio e di Provenzano ce le porteremo dentro. Chissà che un giorno non sprigionino una politica nuova.
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