Foggianità e foggianesimo, il Taccuino di De Seneen, le provocazioni di Savino Russo


Non mi era mai successo che un libro m'intrigasse così tanto, ancora prima della sua presentazione. È riuscito nell'impresa Savino Russo, mandandomi le bozze della sua prefazione al Taccuino della Memoria di Raffaele De Seneen. 
L'autore affida al racconto, più che alla saggistica, la narrazione dell'identità più profonda della sua/nostra città. Per Borges, la letteratura è la sola forma possibile di verità (di racconto della verità) perché consente di vedere "oltre" le cose. Raffaele coglie felicemente questo aspetto  della letteratura.
La malinconia - scrive Savino Russo - non cede mai il passo alla nostalgia e il “come eravamo” diventa così implicita (ma neanche tanto) riflessione sul “come siamo” e anche sul “come saremo”.
Ci sono quindi tutti gli ingredienti per una riflessione seria sull'identità della città. La prefazione di Savino Russo e i racconti di Raffaele De Seneen smitizzano alcuni abusati stereotipi sui quali varrebbe la pena di riflettere, perché troppo spesso la questione identitaria del capoluogo dauno è stata ridotta a puro folclore. 
Russo si concede alcune divertite riflessioni sulla foggianità: Premesso che lo “specifico” della nostra gente non può in nessuna maniera essere accostato alla napoletanità, alla milanesità, alla stessa sciasciana sicilitudine, se un aspetto distintivo, caratterizzante e sicuramente storico risulta naturale mettere in luce della nostra città, è quello di essere stata per secoli e fino ad oggi una città senza mura e dunque una città aperta: aperta ai traffici (la città dei mercanti!) e ai forestieri, disposta e disponibile alle “mescolanze”.

La foggianità (se proprio vogliamo appiccicicarcelo addosso, quest’adesivo) può così essere mediata per certi versi dalla stessa idea di milanesità: di una identità non originaria e per nascita, che diventa, “si fa”, vivendo e identificandosi nello stesso spirito della comunità ospite.
Savino ha perfettamente ragione: nessuna identità può essere costruita a tavolino, né tanto meno scrivendoci un libro. È questione assai più profonda. Questione, direi, di intensità: una identità è tanto più forte quanto più possiede un legame saldo con il passato. Se non c'è ri-conoscenza del e verso il passato, se il filo è debole, l'identità è fragile, ed è questo quanto - temo - stia succedendo a Foggia.
Essendo stato il primo ad utilizzare il termine foggianità, posso dire che lo spirito originario della parola era proprio quello di identità forte.
Il neologismo venne fuori in una serie di articoli che pubblicai sulla Gazzetta del Mezzogiorno, all'inizio degli anni Ottanta, dedicati alla Foggia da salvare: narrazioni di pezzi di città che raccontavano la sua storia e che erano minacciati dal progresso. In quegli articoli mi ponevo il problema se esistesse o meno una foggianità, ovvero se i foggiani avessero o meno una percezione - e quanto questa fosse intensa - della loro identità. Sia la parola che il problema mi furono suggeriti da un ex sindaco, Vittorio Salvatori, che come pochi altri aveva cercato di declinare, da primo cittadino, il volto di una Foggia moderna ed europea. Ricordo le memorabili stagioni liriche e teatrali (dovute anche alla capacità del direttore del Teatro, Enrico Sannoner), ma anche il positivo radicamento delle aziende municipalizzate, avviate da un altro sindaco che sapeva pensare in grande, come Carlo Forcella.
La conclusione di quegli articoli fu tuttavia amara. E fu che la percezione dell'identità foggiana (l'intensità della foggianità, il demone che permette di trasformarla in fattore d'identità) era - e resta - alquanto bassa.
La mia tesi - condivisa, appunto - da Vittorio Salvatori ma anche da altri illustri colleghi di penna, come Gaetano Matrella, che mi fu compagno di viaggio nella Foggia da salvare - è che all'indebolimento della foggianità hanno concorso una serie di fatti storici: non solo il bombardamento (saranno state anche meno di 22.000, le vittime, ma sono sicuramente decine di migliaia, ed è un pezzo di memoria viva e concreta, che venne cancellata, assieme ai palazzi, alle strade e a tante altra tracce d'identità) ma anche gli impetuosi tassi di immigrazione che la città si trovò a vivere negli anni della ricostruzione post-bellica, quando la popolazione crebbe al ritmo di 3000 unità l'anno, per oltre un decennio.  
Non si è mai riflettuto abbastanza, su questo: che accade al genius loci, se decine e decina di migliaia di vite vengono spezzate e spazzate via da un posto, mentre decine e decine di migliaia di vite vanno ad insediarsi in quel posto, il tutto in vent'anni?
I due fenomeni - i bombardamenti e l'impetuosa immigrazione - sono a loro volta determinati da ragioni che hanno a che fare col dna della città: la sua natura di città di frontiera, che è stata croce e delizia di tutto il corso della storia cittadina. Foggia città strategica militarmente, e dunque oggetto di predilezione imperiale ma anche teatro nel corso dei secoli di cruente battaglie di conquista; Foggia naturale crocevia di culture e di genti e di economie, con la transumanza e la Dogana delle Pecore, con la Via Francigena, con l'essere da sempre città che attira flussi consistenti di immigrazione. Croce e delizia: ovvero fattori critici ma al tempo stesso fattori potenziali di sviluppo.
Insomma, Foggia sempre in bilico: tra foggianità e foggianesimo. Tra ansia di sviluppo e il vieto provincialismo simpaticamente stigmatizzato dal governatore regionale pugliese Nichi Vendola.
Leggerò con attenzione il libro di Raffaele De Seneen in quanto credo di trovarvi molti spunti di riflessione questi temi, anche perché ritengo Raffaele un autentico monumento della migliore foggianità.
Mi sollecita questa speranza Savino Russo, che coglie l'essenza più profonda di De Seneen e del suo libro quando scrive che la dimensione identitaria più vera della città sta nel suo essere "città aperta e solidale". 
Sarà anche per questo - chiosa Savino Russo - che al foggiano Raffaele de Seneen risulta naturale occuparsi di zingarelli ed extracomunitari: è nel suo dna, è nel dna di questa città buona e rancorosa, sconcertante nella sua indolenza e nel suo autolesionismo eppure capace nei momenti gravi e bui di ricompattarsi (il pensiero va a come abbiamo vissuto la tragedia di Viale Giotto, per esempio).

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