La scomparsa di Giuseppe Giacovazzo / Il Sud è più solo
Per due volte la mia vita e il mio percorso professionale si sono incrociate con quelle di Giuseppe Giacovazzo. La prima, all’inizio degli anni Ottanta, quando è stato il mio direttore alla Gazzetta del Mezzogiorno, di cui ero “collaboratore fisso”, presso la redazione foggiana. Non era da molto tempo alla guida del quotidiano regionale, cui era approdato dopo la fortunata esperienza alla Rai, come direttore del Tg1. Al giornale portò i ritmi e la freschezza tipici della televisione, che si traducevano in articoli più brevi, in una maggiore attenzione alla notizia, ed in una diversa quanto modernissima visione della grafica. Per il direttore, in un giornale gradevole i bianchi ed i neri dovevano bilanciarsi armonicamente: oggi è un assioma per qualunque designer. Detto trent’anni fa, era una considerevole innovazione. Giacovazzo aveva studiato da geometra, ed amava ripetere che un giornale dev’essere fatto anche di geometrie. E ne introdusse non poche e non soltanto sul versante grafico, nella lunga stagione in cui fu a capo del maggior quotidiano meridionale, trasformandolo in un giornale che faceva meno da specchio passivo della storia, e che partecipava di più.
Ricordo una memorabile polemica il cui il direttore prese le mie difese, con tanto di corsivetto firmato in prima pagina. Avevo scritto – sulla base di testimonianze documentate e reali – che l’industriale che doveva rilevare la Fildaunia di Foggia era interessato più al ricco magazzino che non alle concrete prospettive di sviluppo dell’azienda. Mi beccai una furibonda smentita. Giacovazzo difese l’altra campana, sostenendo che il giornale doveva dare spazio e voce a tutte le opinioni. La Fildaunia chiuse qualche anno dopo.
Dopo che dalla redazione della Gazzetta approdai a Palazzo Dogana, fondando e guidando il primo ufficio stampa di un ente pubblico della provincia di Foggia (ed uno dei primi dell’intera Puglia), ci ritrovammo da “direttori”. L’indimenticabile presidente Michele Protano volle che fosse Giacovazzo a tenere a battesimo la rivista dell’amministrazione, “Capitanata”. La manifestazione si svolse in occasione dell’Ottobre Dauno nel quartiere fieristico. Il direttore pronunciò un accorato discorso sull’importanza dei giornali, della carta stampata. Da convinto meridionalista, consapevole dell’importanza decisiva della cultura per ridurre il divario tra Sud e Nord proprio lui, che scriveva l’editoriale che avrebbe aperto l’edizione del giorno dopo della Gazzetta soltanto dopo aver ascoltato le notizie del telegiornale, proprio lui che aveva introdotto nel quotidiano la tensione del “tempo reale”, si profuse in una lunga ed appassionata difesa sulle parole di carta, le sole che possono permettersi il sedimentarsi di quella opinione pubblica che fa difetto al Mezzogiorno.
Secondo Giacovazzo, il Mezzogiorno è un’area in cui ancora sostanzialmente vige la tradizione orale. Vero che da noi si leggono meno giornali che altrove, ma i telegiornali hanno un’audience che non si trova in nessuna parte del mondo. Ma gli italiani, i meridionali vogliono leggere, ed a proposito il direttore citava lo straordinario successo popolare incontrato da una delle prime trasmissioni della Rai, “Non è mai troppo tardi”, che promuoveva l’alfabetizzazione. “La televisione ha insegnato agli italiani a leggere, i giornali devono fare il resto, conquistandosi i lettori”, ebbe a dire. Giacovazzo si riferiva alla tradizione italiana di giornali eccessivamente “colti”, in quanti da sempre rivolti a lettori istruiti. “Dovete scrivere per il lattaio”, ripeteva ai suoi collaboratori ed ai suoi redattori.
L’ho sentito l’ultima volta invitandolo, qualche anno fa, alla prima del dramma di Anacleto Lupo sul martirio di Aldo Moro, di cui Giacovazzo fu amico e seguace. Non potè venire a Lucera perché già da allora le sue condizioni di salute erano malferme.
Ha raccontato gli anni migliori di un Mezzogiorno che guardava con coraggio al suo futuro, se n’è andato in un momento in cui la questione meridionale sembra essersi eclissata, e proprio mentre dalla Sicilia giungono gli echi di una rabbia profonda, di un perdurante sfiducia in uno Stato che si è completamente dimenticato del Sud. Ci sarebbe ancora bisogno di lui, per raccontare questa rabbia, per trasformarla in una speranza possibile.
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