Il racconto di Lucera e del Tavoliere di Renzo Biasion
di Maurizio De Tullio
Quello che
vi apprestate a leggere è un viaggio, metà reportage
e metà racconto, ma è soprattutto un dipinto realistico o un safari fotografico
con effetto seppia di un pezzo di storia contadina che non c’è più.
Racconto e
dipinto, si è detto, perché il suo autore, Renzo Biasion (1914-1996), fu l’uno
e l’altro: un ottimo scrittore e un grande artista. Da un suo libro del 1953 è
stato liberamente tratto il racconto che fa da sfondo a uno dei più bei film
del cinema italiano, non a caso premiato nel 1991 con l’Oscar, “Mediterraneo”,
di Gabriele Salvatores.
Biasion
venne in Capitanata nella primavera del 1952, inviato speciale del suo giornale
– era una delle firme di punta della pagina culturale del quotidiano torinese
“Gazzetta del Popolo” – e la sintesi della sua permanenza a Lucera compare
nella edizione del 20 aprile 1952.
Lo
scrittore dice subito come la pensa ed esprime il suo giudizio su Lucera: è la
migliore cittadina del Tavoliere, ed usa il termine ‘migliore’ in luogo di
‘bella’, temendo forse di restare compresso nel solo giudizio estetico. Per
lui, evidentemente, conta l’insieme di impressioni e non solo quello che la
vista gli suggerisce.
E così
Biasion ci trasporta in una Lucera nella quale “… non è raro incontrare giovani che nei volti
scuri e nei corpi slanciati mostrano l’antica origine saracena”; ci
restituisce un’immagine di società contadina antica, chiusa a riccio nei suoi
valori ancestrali, quando spiega la difficoltà di poter visitare una masseria
se non si è accompagnati da qualcuno che conosce i padroni di casa: “…Per la grande distanza dalla città, per i
numerosi cani, di carattere assai cattivo, che la difendono, e perché i
contadini, piuttosto diffidenti, non lasciano entrare estranei”.
L’illustre
viaggiatore non manca poi di fare un distinguo sulle caratteristiche che
dividono i nostri ambienti, quello della piana del Tavoliere e quello che si
apre verso l’Adriatico e Margherita di Savoia: “Questi paesaggi sul Tavoliere sono una delle
cose che più colpiscono il forestiero e più restano impressi nella sua mente”
e precisa che “…una cosa è il paesaggio nella zona alta e un’altra, e ben diversa,
quello della zona bassa, ad esempio nei dintorni di Manfredonia e delle saline.
Se i primi, pur nella loro spoglia grandiosità, ti danno un sentimento di
bellezza esaltante, nuova e potente, i secondi, immersi più spesso nella calda
foschia che toglie allo sguardo la visione delle montagne, ti opprimono con un
senso cupo di tristezza, con una monotonia esasperante che porta il pensiero al
deserto, alla sete, alla canicola che spacca la terra, ai greti arroventati che
hanno succhiato fin l’ultima goccia d’acqua”.
Il
reportage di Biasion è curiosamente
intitolato “Lucera, città del vento”,
una riduzione che sembra far torto ai tanti pregi della cittadina federiciana
che un’altra espressione avrebbe meglio rappresentato. E invece lo
scrittore-giornalista si sofferma non poco su questo aspetto, elevandolo quasi
a componente antropologica dei suoi abitanti: “Durante
quasi tutto l’anno, senza un attimo di respiro, le vie di Lucera sono spazzate
dal vento, dal favonio o dalla bora, che si dànno il cambio. Un po’ per volta
il vento ha modellato cose e uomini. La gente, di aspetto scarno, asciutto –
solo le donne che vivono in casa o nelle piccole piazze segrete, che la luce
del sole fa spettralmente bianche, dove il vento è smorzato in un leggero
alito, sono grasse – parla un dialetto stretto, leggermente gutturale, a bocca
semichiusa, forse derivato dall’abitudine a difendersi dal vento”.
E quel
vento se da un lato ti tèdia, nel contempo ti regala visioni uniche: “Un vento
fortissimo, che viene da nord ed è l’ultimo residuo della bora invernale, spira
a raffiche ineguali e ti costringe ogni tanto a fermarti, a riposarti
voltandogli le spalle. Ma come sei giunto al pianoro e ti sei messo al riparo
ecco ti si apre allo sguardo la visione sul Tavoliere, di una ampiezza che
l’aria pulita e la luce tersa, cristallina, vivida e trasparente, fa più
grande, solenne e quasi fuori del tempo”.
Con passo
felpato e con tocchi decisi, Biasion passa poi a descrivere l’ambiente delle
masserie. Lo accompagna in questo originale tour,
un giovane lucerino, l’avvocato Casiero, conosciuto per caso in treno qualche
tempo prima. E ne viene fuori un racconto già sentito altre volte, da altri
illustri viaggiatori, ma che il nostro ospite traccia con linguaggio poetico: “Sembra davvero che
il tempo, per un attimo, si sia fermato insieme col vento, tanto tutto appare
immobile, eterno. Nella pianura sterminata, simile alla puszta ungherese,
verdissima e tremolante, leggermente ondulata quasi che una mano l’avesse
premuta qua e là con dolcezza, si alzano le masserie come bianchi scogli dal
mare”.
Biasion
si sofferma sulle caratteristiche dei fondi agricoli di quegli anni (“I fondi, irrigati esclusivamente da acqua piovana, hanno
pozzi in muratura, che funzionano col sistema del doppio secchio, e che
d’estate restano senz’acqua”), e denuncia i limiti
strutturali e organizzativi della nostra agricoltura: “I terreni sarebbero feraci e produrrebbero
proporzionalmente all’estensione se fossero sufficientemente irrigati. Mancando
l’acqua la produzione è scarsa” e, più avanti, spiega il motivo della
scarsezza di allevamenti bovini: “Nel Tavoliere scarso è l’allevamento del bestiame perché
manca il verde”.
Lo
scorrere del tempo si lega poi al fluire delle stagioni. E qui l’autore fa
parlare un suo interlocutore che ci offre una tenera immagine del tempo vista
in chiave climatica, oggi messa in crisi da tante ragioni: “Alla masseria trovammo lo zio, un tipo di patriarca, alto,
robusto, forte. Ci disse, con un sorriso, che alla
sua fattoria le rondini arrivano esattamente il 21 marzo e ce le mostrò nel
cielo”.
Quasi
da documentario in bianco e nero la descrizione di un certo universo femminile:
“Sui gradini delle chiese, donne sedute
immobili, avvolte nel nero scialle e scure nel volto solcato da rughe profonde,
sembrano statue di basalto nero. Mentre nei vicoli […] le scorgi affacciarsi alle porte come a delle finestre, nanerottole
formose che ti fissano un attimo e poi spariscono”.
Più
avanti è illuminante, e poco nota, una certa pratica nella preparazione del
pane casalingo: “Prima della costruzione
dell’acquedotto pugliese – spiega Biasion – queste donne impastavano la farina del pane col vino anziché con
l’acqua, perché costava meno”. Già, l’acqua, quasi più preziosa dell’oro!
Il
reportage termina con il calar della
sera e con il delicato illuminarsi, in una Lucera che, come tante altre borgate
rurali della Capitanata, non c’è più o che tende inesorabilmente a scomparire:
“A sera, quando sono prossimi a rientrare
gli uomini, e il vento un poco si placa, accendono e animano i fuochi
all’aperto, su piccoli fornelli, e la periferia della città, già oscura, brucia
tutta di questi fuochi roteanti di scintille che il vento invola”.
La
perlustrazione nella “migliore”
città del Tavoliere si chiude tra le stradine lastricate della vecchia Lucera dove “girare per i
vicoli a quest’ora ti dà una sensazione arcana, come di riti misteriosi che le
donne apprestano per i pastori sui monti, o di amori notturni, sensuali, rapidi
e un po’ grotteschi”.
Il
suono di una radio, che riproduce una canzonetta ‘moderna’, confonde infine
Renzo Biasion al punto di ritenere che “… potrebbe
essere un canto di passione, di rimpianto, adatto per queste parole:
nisciuno foco a
lu munnu arde tante
lu focu d’amore
j’è chiù possente
nisciuno ave
pietà d’ lu mia lamente”.
Sembra
di scorgere, in questa scena paesana e fuori dal tempo, l’immagine che proprio
in quegli anni cominciava a costruirsi un grande cantastorie della nostra
terra: Matteo Salvatore, autore e cantore di un mondo contadino aspro e ricco
di aspetti interiori.
Proprio
come Lucera e il Tavoliere, sapientemente descritti in questa pagina poco nota
di un grande artista, giornalista e scrittore veneto.
RENZO
BIASION
Trevigiano
di famiglia veneziana, Biasion (1914-1996) è noto per aver curato per oltre 30
anni lo spazio d’arte nella famosa rubrica ‘Il
sofà delle muse’ sul settimanale “Oggi” e perché da un suo famoso libro,
“Sagapò” (Einaudi, 1953) - una raccolta di racconti sui soldati italiani a
Creta durante la Seconda Guerra Mondiale - il regista Gabriele Salvatores
trasse ispirazione per il suo celebre “Mediterraneo”,
bellissimo film premiato nel 1991 con l’Oscar quale miglior pellicola
straniera.
Ma
Biasion fu molto altro: docente di figura al Liceo Artistico di Firenze,
disegnatore, incisore, critico letterario e d’arte, giornalista. Collaborò per
molti anni con quotidiani e giornali nazionali, scrivendo articoli, recensioni
e curando reportage soprattutto per
le pagine culturali della “Gazzetta del
Popolo” di Torino, “La Nazione”
di Firenze e “il Resto del Carlino”
di Bologna.
Per scaricare in alta risoluzione la versione integrale e digitale dell'articolo reportage di Renzo Biasion, cliccate qui.
Commenti
Quello che vorrei dire, invece, è che avendo dato un'occhiata alla pagina FB di 'Lettere Meridiane' con i relativi commenti, ho l'impressione che in questo vostro mondo facebookiano (concedetemi l'espressione) - dal quale continuo ad essere generalmente assente - vivano soggetti davvero un po' strani.
Ringrazio, pertanto, a cominciare dal grande Geppe Inserra, i soli Peppino Trincucci e la signora Rossi (mi sfugge il nome) che, su tutti, mi sono sembrati gli unici a vivere sulla terra...
Cordialmente (Maurizio De Tullio)