L'articolo di Giorgio Bocca su Foggia: Spider bianca per statale pugliese
Come promesso agli amici Lettere Meridiane ecco l'articolo di Giorgio Bocca su Foggia, recuperato da Giuseppe Trincucci e pubblicato nell'ultimo numero della rivista della Biblioteca Provinciale di Foggia. Ieri abbiamo pubblicato l'introduzione di Trincucci all'articolo di Bocca, intitolato Spider bianca per statale pugliese.
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Foggia, gennaio
Scendo a Foggia, nel profondo sud, e scopro una città
che già somiglia a Busto Arsizio: dopo i Normanni, gli Angioini e i Borboni,
case tipo svizzero e mobili di Cantù.
Da quest’anno gli alberi di Natale, i cupi abeti del
nord, signoreggiano sui miseri quercioli del Corso, contorti e polverosi, orina
di cane sulla corteccia rugosa. Le musichette dei persuasori occulti escono da
un grande magazzino vetrocemento, arrivano nei giardini e Umberto Giordano, di
bronzo, non gli fa né caldo né freddo.
In attesa delle industrie gli onorevoli con segretario
litigano sul futuro Centro industriale e, in attesa del piano regolatore, tutti
costruiscono case e casoni a loro comodo. Sarebbe il momento, per la gente di
qui, del risparmio feroce e degli investimenti produttivi e invece spendono a
man salva, travolti dall’ebrezza dei consumi. La tendenza a fare esattamente il
contrario di ciò che dovrebbe essere fatto è generale, eppure le cose,
apparentemente, vanno per il meglio.
«Ma insomma c’è ‘sto miracolo a Foggia?».
«Sì, c’è prima di esserci».
«Come?».
«Ma è chiaro: esiste perché deve venire. È un miracolo
sulla parola, la gente cui è stato promesso ha incominciato ad anticiparselo».
«Non è affatto chiaro».
«Va bene, non sarà chiaro, ma ve lo racconto lo stesso.
E poi abituatevi a questo linguaggio fra il paludato e l’ermetico: siamo nella
terra dei “notabili” dipinti da Salvemini».
Mi dice un onorevole: «Qui la casa non ce l’ha solo chi
non l’ha voluta». E un suo collega aggiunge: «Qui la casa non è il punto di
arrivo, ma di partenza».
Saranno due paradossi, ma somigliano maledettamente alla
verità.
Nel ‘44 la città contava quarantamila abitanti, in
grande parte privi di alloggio. La guerra aveva fatto ventimila morti e
distrutto i tre quarti delle case. Adesso gli abitanti sono centoventimila e la
loro densità per stanza è di 1,4, come nei centri più ricchi del nord.
L’edilizia pubblica o sovvenzionata ha costruito trentamila stanze, quella
privata trentaduemila. C’è stata una rapida promozione di muratori
a capomastri e di capomastri a impresari edili. Qualcuno
è finito in prigione, qualcuno è miliardario. Tutti hanno costruito edifici
adatti al mercato: muri di cartavelina, materiale scadente, facciate
pretenziose. Mancando il piano regolatore molti hanno costruito palazzi da otto
piani su strade di quattro metri.
Gli spiriti coltivati affermano che i tempi di vero
progresso escludono un’edilizia perfetta, la fretta essendo nemica del bello.
Ma a Foggia non c’è soltanto la fretta, c’è una sete, quasi patetica, di lusso,
modernità, efficienza, se non sostanziali almeno apparenti. Dopo secoli di case
povere e disadorne si vogliono case, a vederle dal di fuori, ricche e
luccicanti. Non ancora case da abitare, ma strutture da addobbare, all’esterno,
con tutti i colori, gli ornamenti, i materiali, i simboli di quel benessere
continentale che non c’è, ma che deve venire. Colori olandesi, tulipaneschi e
cardinalizi, per cieli tetri, nella radiosità mediterranea. Grandi vetrate,
come se ne vedono a Dusseldorf, per captare ogni particella di luce, in una
città dove la luce penetra dovunque purificando anche le immondizie, come la
calce.
Da solo, per caso, sono capitato in un quartiere
residenziale, di costruzione recente, dalle parti del campo sportivo. Bisogna
che vi parli del mostruoso orto edilizio. Dunque immaginate una ventina di
case, disposte a trapezio, che giustificano, da sole, l’école du régard, l’efficacia del descrittivismo puro. Colonne a piastrelle
di onice, reggenti balconi verde pistacchio, qua e là segnati da mattonelle nere.
Ingressi a quinte sghembe, di cementi azzurrati o giallo liquirizia. Cancelli a
forma di arpa quale dorata e quale d’argento. E targhe in bronzo, alluminio, formica,
persino con vernice fosforescente: «GRAND. UFF. Medico Chirurgo », «DOTT. ING.
impresario edile», «Avvocato PERITO TRIBUTARIO». E rampicanti, oleandri, palme,
portafiori di maiolica o di gesso con cervi e Diane cacciatrici lanciati, in
plastico volo, verso altre follie: pareti arlecchinesche a rettangoli, triangoli,
rombi di mattonelle color vino o rosso pompeiano; svasature a tessere verdi
bottiglia o gialline con crocette azzurre; bugnati e bugnatini di finto granito.
Più in su balconi a triangolo, a cuore, a fagiolo; ringhierine floreali
alternate a poggioli di lastre precompresse, un tritume scintillante di vetri,
conchiglie, quarzi, pietrisco; sottobalconi color fragola con strisce gialle,
serrande grigioazzurro, separazioni di terrazzi a banderuole di metallo di ogni
tinta e, sopra il tutto, antenne, antenne, antenne, come strumenti di navi
carnevalesche, naviganti in convoglio. «Perché, lei preferirebbe qualche bel
palazzo e poi migliaia di catapecchie?».
«Io non preferisco, racconto».
I direttori delle filiali spediscono al nord relazioni
trionfanti: «Duplicata vendita cucine americane e triplicata vendita televisori,
nonostante il mercato saturo. Oggi a Foggia ci sono diecimila apparecchi su
ventisettemila nuclei familiari». «Mercato scooter in continuo aumento. Asini
cancellati dal paesaggio pugliese. Terrazzani e viaticari vanno a raccogliere
funghi, radici, cicoria, cipolline selvatiche esclusivamente in motoretta».
«Per la prima volta, in occasione del Natale, le vie centrali sono state
addobbate e illuminate.
La nostra azienda ha avuto, come sempre, una funzione
pilota. Undicimila persone hanno partecipato al nostro concorso Biancaneve,
possiamo affermare con legittima soddisfazione di avere interessato l’intera
cittadinanza. Gli incassi si mantengono su una media di quindici milioni al
giorno». «Tirando le somme nel 1960 noi e la concorrenza avevamo venduto seicentosettantotto
automobili. Nel 1961 la vendita è stata di novecentocinquantotto, con un
incremento eccetera eccetera». «Segnaliamo a codesta spettabile ditta i
mutamenti che avvengono nei gusti della clientela: le ragazze hanno imparato a vestirsi
e a truccarsi, si può contare su una vendita crescente di cosmetici e di capi di
abbigliamento opportunamente pubblicizzati da riviste femminili».
«Il presepe va sempre meno, l’albero va sempre più». Ma
i direttori delle filiali, gente del nord, capiscono le cose fino a un certo punto,
nessuno di essi ha saputo mettere il dito sul vero miracolo come ha fatto il
dottor Curatolo, commissario alla Provincia: «Egregio dottore, mi smentisca se può,
ma in questo momento a Foggia non c’è un solo laureato disoccupato». Tremava, nella
sua voce di ex-laureato sgomento per la scarsità di impieghi, una sincera commozione.
Evidentemente non siamo ancora al livello di vita della pianura padana.
Niente yacht, niente aeroplani, niente piscine, tre
Mercedes e due Ferrari in tutto e per tutto, ma piano piano la borghesia agiata
prende quota. A Siponto sono sorte in due anni più di cento villette, le
signore fanno venire le sarte da Roma e da Bologna, si mandano i figli a
studiare nel collegio di Santa Trinità dei Monti, qualcuno va a sciare,
parecchi trascorrono le vacanze all’estero, in Austria, Danimarca, Norvegia, più
in su è meglio è.
I consumi lievitano e i costumi cambiano. Il sociologo
ne prende atto e poi indaga sui motivi. Ci sono le rimesse degli emigrati e c’è
la Cassa per il Mezzogiorno, c’è la buona annata della agricoltura (ma l’anno
scorso c’è stata una recessione del tredici per cento) e c’è il turismo in
progresso. Tutto qui? Se ascoltate un meridionale scettico e veritiero vi
spiega che c’è dell’altro: «Dottore bello, qui se le banche dicono basta agli
sconti sulle cambiali ci troviamo tutti in mezzo alla strada. Abbiamo debiti
fin sopra i capelli, dottore mio».
È la pura verità. Eccetto il grande magazzino “che ha la
funzione pilota” e i pubblici esercizi, tutti vendono a rate. Il pizzicagnolo come
il negoziante di abbigliamento, l’orefice come il fruttivendolo. Ci sono delle
sarte che aspettano da tre anni di essere pagate dalla tal signora; e una
manicure, che a forza di duecentocinquanta lire per seduta, aspetta venti
biglietti da mille da un’altra madama. Un negozio di abbigliamento “è fuori”
per ottanta milioni, un impiegato, pur di acquistare una spider bianca, si è
indebitato fino al 1967. Professori integerrimi, magistrati onesti, avvocati di
chiara fama usano il sistema della quota mensile: pagano trenta, quarantamila
lire al tal negozio e poi si servono. Le quote mensili rincorrono con scarso
successo le cifre segnate sul quaderno, a volte il ritardo è di alcuni anni.
Del resto un bell’esempio lo dà il Comune, indebitato a
tal punto che lo hanno praticamente interdetto; solo lo Stato, ormai, può
garantire i suoi mutui. Eppure non ha ancora trovato il modo di mettere in
funzione le commissioni tributarie, le liti e i ricorsi dormono da dieci anni.
Per finire diremo che uno dei commerci più redditizi è quello degli oggetti
venduti alle aste giudiziarie: televisori acquistati a venticinquemila lire,
cucine economiche a diecimila. Con un certo giro di piccola corruzione: un
incauto è stato cacciato dal miracolo, un certo commerciante specula sulla sua
sventura, un ufficiale giudiziario viaggia in Alfa Romeo. Tutto a rate, fuorché
l’onore. Ogni anno qualche professionista fallito si spara, ogni mese qualche
marito tradito “uccide e si uccide”, come intitolano le cronache. Ma già si
notano segni di miglioramento.
«Lei conosce Ciccio De Felice? Quello che perse quattro
milioni a chemin de fer con il barone Giuffrida?».
«Non ho il piacere».
«Lei sa che disse don Ciccio al barone?».
«No, non sono al corrente».
«Barone», gli disse, «mi sputi pure in faccia ma io non
le do neanche una lira».
Chiedo notizie sulla vita culturale e mi sento
rispondere: «Caro dottore, come lei ci insegna, la cultura, in piena sostanza,
è il concreto stimolo che si qualifica sotto il profilo mentale e professionale
per le esigenze di una società stabilmente e continuamente occupata».
Il cielo mi danni se ho mai insegnato scempiaggini del
genere, ma loro insistono nella chiamata di correo: «Dottore egregio, come lei
ci insegna, questa è la patria di Umberto Giordano e di artisti sommi. Dal
tempo del favoloso re Dauno... ». Io vorrei confessare che questo re Dauno lo
ignoravo totalmente fino a un minuto fa, ma non si può, devo ascoltare la
solita storia della civiltà millenaria, la solita mitologia da circolo
sottufficiali. Che poi servono a spacciare la solita relazioncina tutta rose e
fiori: «Abbiamo un ottimo liceo musicale, una fornitissima biblioteca, una
scuola d’arte e recitazione, maestri zelanti, professori esimi, dodicimila alunni
alle elementari e undicimila alle medie».
Poi io mi metto a cercare ciò che esiste sotto questa
cultura declamatoria e scopro quanto segue: seimila analfabeti adulti, una
istruzione professionale quasi inesistente, scuole dove si fanno i doppi, i
tripli turni perché mancano “sono carenti” come dicono centotrenta aule. Le due
librerie cittadine mi segnalano come best-seller
dell’anno II Gattopardo con cento copie scarse, La Noia con novanta copie, Cuore
arido con venti e La Monaca di Monza con dodici. Che divoratori di libri i lettori Dauni!
Abitanti, dicevo, centoventimila, quotidiani venduti
tremilacinquecento, settimanali quattromila con in testa Grand’Hotel. Il liceo musicale è ottimo, siamo d’accordo, e i suoi
venti concerti annui, eccellenti. Ma ci furono duecentocinquanta abbonamenti
finché rimase qui un prefetto musicofilo. Partito il prefetto gli abbonamenti
sono scesi repentinamente a trentatré ed ora i concerti sono gratuiti, ci vanno
gli studenti e i ferrovieri.
Di mecenati non se ne vedono. Il Banco di Napoli,
onnipotenza finanziaria, retto da quell’umanista che è il professor Corbino, dà
il suo unico contributo alle corse al galoppo. I circoli - ce n’è uno, Dauno,
si capisce - con tutte le loro finalità culturali, sociali, benefiche servono
soprattutto al gioco di azzardo praticato dal solito gruppo di furibondi
giocatori. Certe sere qualcuno perde sei o sette milioni. Indi telefonate della
moglie, intervento amichevole di una eccellenza, spostamento da un circolo
all’altro e nuova smazzata di carte.
Insomma se per cultura di una classe dirigente si
intende la coscienza della propria funzione, del proprio valore storico, dei
diritti e doveri; se cultura significa “sapere, per prevedere, al fine di
potere” dovremmo dire che resta parecchio cammino da compiere.
Eppure vorremmo terminare con parole di moderato, ma
fiducioso ottimismo. Con tutti i suoi mali e con tutti i nostri errori il Sud è
cambiato, in questi anni è avvenuto nel Sud un mutamento decisivo e
irrevocabile. È questione di mesi, di anni, ma quando salterà il tappo qui ci
sarà un boom economico come nella pianura padana.
Lo dicono, ci credono, e un meridionale che crede in
qualcosa è già un grande miracolo. Certo la sfiducia reciproca e il sottinteso
sleale non sono scomparsi: non si esce indenni da secoli di governi polizieschi
e di educazione ipocrita. Però nascono forme associative che solo pochi anni fa
sarebbero parse chimeriche. La Daunia latte è arrivata a cinquecento soci, la
cooperativa vinicola di San Severo non è in grado di accogliere tutte le
domande di ammissione. A Foggia città i commercianti (nonostante i quintali di
lettere anonime) si sono accordati per creare un supermercato fondando - udite,
udite! - una società per azioni. Dovunque dalla società familiare si sta
gradualmente passando alla società con responsabilità limitata.
Bruciati da millenarie fregature, gli amici Dauni non
sono dei leoni in fatto di iniziativa privata, ma se qualcuno apre la strada lo
seguono: molti negozi di alimentari hanno adottato i banconi frigoriferi del
grande magazzino, tutti imitano le confezioni
e la pubblicità delle grandi aziende lombarde.
Nessuno saprebbe indicare con certezza come e quando
verrà fatto “saltare il tappo”. Se dall’azienda di Stato che sta cercando
metano e petrolio; se dalle industrie conserviere, zuccheriere, di materie
plastiche che vanno sorgendo nel contado; se dalla diga in terra sul Fortore
che renderà irrigui duecentomila ettari. Ma tutti credono che il tappo salterà
e che questo diverrà la nuova frontiera italiana. L’onorevole Vincenzo Russo
dice che il nuovo corso «ha spezzato il clientelismo e rinnovato la classe
dirigente». L’onorevole Russo è giovane e ottimista.
Noi diremmo piuttosto che il clientelismo non è più
l’unico strumento del potere politico e che il sottogoverno non è più l’unica
condizione dei buoni affari economici. Adesso un’alternativa esiste. Non sarà
facile, non sarà sufficiente, ma esiste. Il sistema di forze e di probabilità
che circonda ogni essere umano si è allargato: si può vegetare nell’ombra di un
onorevole con segretario, ma si può anche lavorare per solide aziende pubbliche
e private; si può speculare sui terreni che il protettore altolocato farà
acquistare dal Comune e dalla Provincia, ma si può anche bonificare la terra,
manipolarne i frutti, sfruttarne le bellezze.
A qualcuno è andata male. Mi è stato raccontato dei due
Fredella che avevano creato un biscottificio dimenticando semplicemente di fare
un’indagine di mercato; che finanziavano una squadra di calcio purché portasse
in giro, sulle maglie, la F d’oro. Eppure vorrei parlarne con simpatia: meglio
due meridionali rovinati da un’iniziativa imprudente che eserciti di
meridionali cauti, al sicuro da tutti i rischi, ma anche da qualsiasi successo.
«Ma scusi, cos’è ‘sto finalino tutto latte e miele dopo
le tirate da nordista altezzoso?».
«È quello che penso. Va tutto piuttosto male quaggiù, ma
tutto prima o poi dovrà andare bene. C’è una economia gracile, tenuta su
dall’ossigeno statale e dal giro delle cambiali, esposta a ogni accenno di
recessione, eppure prima o poi si arriverà a qualcosa di stabile, di
efficiente».
«Egregio dottore, come lei ci insegna...».
«No, amici: io insegno un bel niente. Semmai vi
consiglio di buttare nella spazzatura il linguaggio declamatorio-gesuitico che vi
piace tanto. Non è adatto agli affari. Dunque, in risposta alla Vs. data
odierna informovi invio Ns. campionario e distintamente Vi saluto».
Commenti
Del resto Giorgio Bocca era pur sempre Giorgi Bocca
Quando si dice la sociologia. ......!!!