Ciccarelli: La verità -vi prego- sul giornalismo (e il parapioggia di Noé)

Non ci sono discussioni così accese e partecipate, sul social network, di quelle che riguardano i giornalisti, tanto più quando parlano di se stessi. Il dibattito innescato da Gianni Cicolella e dal successivo post di Lettere Meridiane ( A.A.A. editori cercansi: la crisi del giornalismo in provincia di Foggia) prosegue, con tantissimi interventi, di addetti ai lavori e non.
Darò conto nei prossimi giorni dei diversi interventi.
Sulle questioni sollevate da Cicolella e da Lettere Meridiane ha scritto una lucidissima nota Enrico Ciccarelli, che ha il grande merito di sfuggire al rischio dell’autoreferenzialità che si corre quando un professionista riflette e discute sui ferri del mestiere.
Ecco quanto ha scritto Ciccarelli. La sua nota ha come titolo La verità -vi prego- sul giornalismo (e il parapioggia di Noé), ed è stata pubblicata dall’autore nella propria bacheca di Facebook l’11 novembre 2013, alle ore 22.35

* * *
Questa nota raccoglie alcune considerazioni svolte sulla bacheca del gruppo "Giornalisti di Capitanata" dove i colleghi Maurizio Tardio, Gianni Cicolella e Geppe Inserra hanno da vari punti di vista proposto riflessioni sulla crisi della professione giornalistica, nella quale sono intervenuti diversi altri. Il tema proposto in prevalenza mi è sembrato quello della discussione sulla "crisi del settore", specie in campo occupazionale, con vari spunti di contestazione nei riguardi dell'attuale assetto dell'Ordine dei GIornalisti e della divisione nelle categorie dei Professionisti e dei Pubblicisti. Non è mancato il riferimento, in ambito locale, alla categoria degli "editori puri". A mio parere ciascuno di questi argomenti è portatore di elementi di senso; ma a me pare simile ad una discussione su quale tipo di parapioggia sia più utile a difendersi dal diluvio universale.

Comincio dall'Ordine: abbiamo criteri di ammissione troppo severi per i professionisti e troppo laschi per i pubblicisti. La laurea (con pre-esame di cultura generale per chi non ne è in possesso), la possibilità di svolgere gli esami in sede territoriale (perché l'esame di Stato per commercialista si fa a Bari e quello da giornalista a Roma?), maglie meno proibitive per il praticantato, formazione permanente dovrebbero essere caratteristiche fondanti per qualsiasi percorso di validazione professionale. Credo inoltre che l'esercizio della professione in via esclusiva vada previsto cum grano salis: mi sfugge la ragione per la quale, ad esempio, possa insegnare un avvocato, un ingegnere, un commercialista, e che invece la professionista Antonella Caruso debba tornare fra i pubblicisti per farlo.
Ma superare il doppio Albo non servirà se non si capisce di quale professione questo Albo uno o bino sia espressione. Come la professione ingegneristica, mi pare che anche il giornalismo sia minacciato da presso da una fortissima multidisciplinarietà, tanto feconda e affascinante quanto sfuggente e pericolosa. Siamo ancora in grado di dividere l'informazione dalla comunicazione? Il cronista di nera, l'agitatore di Report specializzato in hostile questioning e il responsabile socialmedia di un quotidiano fanno lo stesso mestiere? Mario Dondero, le cui splendide foto sono in mostra alla Banca del Monte, è un grande giornalista anche se non ha mai scritto un articolo? Lo è stato Vittorio Afeltra, che ne ha scritti pochissimi in sei decenni di professione, e senza scattare una foto che è una? E i professionisti delle relazioni pubbliche, i comunicatori, gli ottimizzatori e coordinatori, gli addetti stampa, i bordocampisti, i conduttori? Potremmo invocare, come faceva Auden sull'amore, "la verità -vi prego- sul giornalismo"?
La professione non è esplosa e slabbrata come un uovo fritto solo per innovazioni tecnologiche (che pure hanno il loro peso): è divorata anche dalla sostanziale marginalità del prodotto che avrebbe in animo di offrire. Il patto fra liberi per cui un giornalista indipendente fornisce ad un'opinione pubblica sovrana gli elementi di conoscenza utili alle decisioni appartiene da tempo all'album dei ricordi o delle utopie, ove ne sia mai uscito.
Non è un mistero che la pubblicità abbia da gran tempo sorpassato ogni altra fonte di introito degli organi di informazione (anche nella tv pubblica l'incidenza del canone non è prevalente). L'epoca d'oro cominciata negli anni Ottanta (miriadi di tv locali e network privati, radio, quotidiani e giù per li rami fino ad internet) è stata innanzitutto coeva alla globalizzazione, cioè al mercatismo: il bisogno di informazione era drogato, si costruivano giornali enfi di pagine perché dovevano adeguatamente accompagnare la pubblicità (pensate all'ipertrofia dei newsmagazine di allora, o a certi attuali numeri di Vanity Fair). Se La Gazzetta del Mezzogiorno del 1980 aveva una o due pagine di cronaca di Capitanata e se quella del 2010 ne aveva venti o addirittura trenta, dipende dal fatto che c'erano dieci volte più notizie? Dieci volte più lettori? Direi di no.
Una produzione giornalistica sempre più gonfia ha inevitabilmente prodotto, per l'effetto inflazione, una qualità sempre più scadente dei suoi addetti. Oggi è di moda prendersela con internet e con il vezzo del copiaincolla; ma prima dell'online è venuta la tv; da quanto tempo i giornali sportivi -ad esempio- hanno smesso di parlare degli eventi per occuparsi della loro proiezione catodica? Per quanto tempo l'agenda politica è stata dettata da Bruno Vespa, da Maurizio Costanzo, da Michele Santoro? La tradizionale rappresentazione della tv emozionale e della stampa riflessiva ha lasciato il posto ad un blob indistinguibile, in cui l'iperbole e l'urlo, il gossip e lo scandalismo sono apparsi derive inevitabili (non lo erano e non lo sono).
La crisi della democrazia rappresentativa e l'avvento della società liquida hanno infine fatto saltare la casamatta. La sostituzione dei giornali di partito con i giornali-partito (da Repubblica, l'antesignano, fino al Fatto, passando per il Giornale) ha comportato un'ulteriore e disperata mutazione genetica, cioè lo smarrimento di qualsiasi funzione di terzietà: ci siamo trasformati, da impaginatori del discorso pubblico, curatori della sua punteggiatura e della sua corretta sintassi, in attori e creatori di esso. Così in campo sportivo arrivano i tifosi giornalisti o giornalisti tifosi, spesso sussunti nel mitologico ircocervo della figura dell'opinionista o nella perversa epitome della "telecronaca tifosa". In campo economico l'analisi dei fenomeni e dei flussi è sostituita dal marketing; in campo politico dalla militanza, in versione maitre-à-penser o plebea, secondo che dettino tariffe e gusti.
Ovviamente la perdita di qualità e la perdita di peso contrattuale vanno di pari passo, nel più classico dei circoli viziosi: giornalisti che fanno peggio il loro mestiere verranno pagati sempre meno e lavoreranno di conseguenza in modo persino peggiore. Non voglio essere apocalittico, e queste considerazioni fatte con l'accetta tralasciano molti fenomeni e fermenti tutt'altro che negativi. Ma resta la mia impressione sul parapioggia di Noé e sulla lieve sensazione di irrealtà e di amara ironia che mi desta la discussione se per lo sbarco in Normandia sia preferibile puntare sui pattìni o sui gommoni.
Enrico Ciccarelli

Commenti

Unknown ha detto…
Alle considerazioni di Ciccarelli vorrei aggiungere una questione che a me pare essenziale. Il rispetto delle regole, tema sul quale spesso tanti giornalisti, anche ottimi giornalisti sembrano sordi. Quando parlo di regole non mi riferisco solo alla deontologia ma anche incompatibilità. Piaccia o no esiste una legge dello Stato (150/2000). Credo che tutti noi conosciamo il contenuto degli articoli 7,8,9. E allora se c'è' scritto che chi assume un incarico in un ente pubblico per tutta la sua durata non può' esercitare l'attività di giornalista in testate, ne' accumulare altri incarichi dello stesso tipo, così deve essere. Possiamo sforzarci quanto vogliamo di migliorare le regole di accesso alla professione, di incentivare il processo di democratizzazione degli enti e di approvare carte stupende sul piano teorico in cui si dice che gli editori sono tenuti a rispettare i minimi tabellari e a non utilizzare colleghi in pensione per risparmiare ma il risultato sarà sempre lo stesso. Se c'è il collega furbetto che accumula più incarichi istituzionali o quello convinto che può scrivere di sport e fare l'addetto stampa al Comune x, ci sarà sempre chi guadagna e anche parecchio (pochi) e chi con la professione di giornalista non riesce a vivere.

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