Il medium non è il messaggio
Caro Massimo,
ho letto tutto d’un fiato il tuo bel commento all’articolo
in cui mi ponevo questioni circa il senso, la
portata, l’efficacia comunicativa del social network. [Agli amici di Lettere
Meridiane: qui trovate l’uno e l’altro.]
Leggendo quel che hai scritto è stato dolce e fatale tornare indietro nel tempo: a quel laboratorio
di comunicazione che tenni presso il Quotidiano di Foggia e che rappresentò per
te il primo approccio e il trampolino di lancio verso la professione. Ne rilevo
le tracce in quanto dici a proposito del fine della comunicazione che dovrebbe essere
sempre quello di propiziare il cambiamento, riscoprendo la dimensione del comunicare in cui ogni scambio
(efficace) di messaggi ci trasforma, facendoci scoprire diversi, più ricchi.
In quel laboratorio, così come in tutte le occasioni in cui
ho avuto modo di formare giovani e non all’esercizio del mestiere più bello del
mondo, sostenevo che il giornalismo è più una tecnica che non una professione.
Un ingegnere costruisce ponti, strade e palazzi, un medico cura malanni e in
questo loro fare svolgono una funzione specifica, specialistica all’interno
della società. Il giornalista no, perché compie un esercizio tipicamente e
meravigliosamente umano che è quello del comunicare, così come comunicano tutte
le creature. Per farlo, è ovvio, ha bisogno di acquisire saperi, abilità che lo
porteranno a maneggiare i ferri del mestiere più o meno efficacemente: ma
questo riguarda, appunto, la tecnica.
Di te mi colpì subito la passione intellettuale e soprattutto
la tensione morale che oggi ritrovo tutta nel tuo commento. Non ne condivido però
il pessimismo di fondo. Mi pare anzi che tu commetta proprio l’errore che in
quel laboratorio cercavo di esorcizzare, ponendo al centro dell’attività
formativa l’intrinseca ed irrinunciabile umanità dell’esser giornalista. L’errore,
un errore che ahimè ha segnato buona parte della storia più recente della
comunicazione, è confondere il medium con il messaggio.
Il social network non è buono o cattivo in se stesso. Così
come una piazza virtuale non differisce poi tanto da una piazza reale. Dipende da chi ci sta, ed in una piazza ci sono
le brave persone, i cittadini onesti, così come i truffatori e i borseggiatori.
C’è chi paga regolarmente il posteggio e chi lascia l’auto in seconda fila. Quel
che conta sono i messaggi che in una piazza reale o virtuale vengono scambiati,
la loro qualità, la loro capacità di sprigionare veramente cambiamento.
Il problema è che da qualche anno in qua c’è un oggettivo
impoverimento dei messaggi, dovuto – questo sì – alla preponderanza del medium
rispetto al messaggio. Quando Marshall Mac Luhan ha teorizzato che il medium è
il messaggio non annunciava una novità messianica, semplicemente si limitava a
prendere atto di una realtà, che già ai suoi tempi prendeva forma sempre più aggressivamente: la
crescente invadenza del medium rispetto al messaggio, della prevalenza della
forma, del codice sui contenuti.
Se vogliamo dirla tutta, è stata la televisione a
spettacolizzare e virtualizzare la realtà: senza una certa televisione (sono
convinto che la televisione italiana sia tra le peggiori del mondo) non avremmo
avuto vent’anni di berlusconismo.
I bei tempi delle campagna elettorali porta a
porta, tutte fondate sul contatto interpersonale (e quindi sul tentativo di
formare una comunicazione efficace, in grado di orientare il cambiamento), sono
stati sfracellati dalla riduzione della politica a spettacolo (più spesso
avanspettacolo). Gli slogan ad effetto hanno avuto la meglio sui programmi; la
propaganda sulla comunicazione.
Nutro un moderato ottimismo sulla possibilità che la rete,
che almeno è in grado di restituire alla comunicazione la sua natura circolare, di scambio e
intreccio di messaggi, possa rappresentare un valido antidoto alla invasiva pervadenza
della (pseudo) comunicazione di massa.
Mi rendo conto che rispetto alla rete dura
e pura di un tempo, alla rete dei forum, il social network tenda a replicare
gli aspetti più inquietanti dell’informazione e della comunicazione broadcast.
Ma è tutto quel che abbiamo per non arrenderci.
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