Il Mezzogiorno condannato alla disfatta (di Geppe Inserra)
“Nell’insieme, in Italia si vive un po’ meglio”, scrive su ItaliaOggi Silvana Saturno, commentando il Rapporto 2018 sulla qualità della vita, realizzato dall’università La Sapienza per conto del quotidiano economico finanziario. Ma non è vero, a meno che non si voglia considerare quale “insieme” del Paese soltanto il Nord.
La verità è che in Italia non c’è più alcun “insieme”: si vive sempre meglio al Nord e sempre peggio al Sud. L’ottimismo del giornale è fondato sul fatto che, rispetto alla classifica 2017 tre nuove province si sono aggregate a quelle in cui la qualità della vita è risultata buona o accettabile.
Ma si omette di dire che, per quanto riguarda il Mezzogiorno, la situazione è ancora peggiorata. Se nel 2017 erano due le province che manifestavano una qualità della vita accettabile (Potenza e Matera), nel 2018 è soltanto una (Matera). Nel biennio, nessuna provincia meridionale denota una qualità della vita buona, e tutte si collocano nella fasce in cui è classificata come scarsa o insufficiente.
Basterebbe ed avanzerebbe per concludere che il divario tra Nord e Sud ha raggiunto livelli insostenibili, ma si preferisce glissare secondo il classico e sempre più collaudato meccanismo della rimozione: la questione meridionale non esiste, e punto.
Osservando la mappa del benessere disegnata dalla indagine, si ha invece la conferma più evidente della intuizione di Pino Aprile, che ha intitolato il suo ultimo libro, “L’Italia è finita”. Ormai è un luogo comune perfino l’idea dell’Italia come un paese a due velocità. Di velocità ce ne sono almeno tre: quella del ricco Nord Est, poi l’Italia che arranca, a macchia di leopardo, tra Centro e Nord, e infine il Sud, condannato alla disfatta.
L’atto finale del processo è lo scellerato regionalismo differenziato propugnato dalla Lega (e supinamente accettato dall’ala gialla del Governo). Veneto e Lombardia, e a ruota Emilia Romagna, rivendicano competenze fondamentali (tra cui sanità, istruzione, trasporti, ambiente) che propongono di finanziare non soltanto con la spesa storica (che è già di suo squilibrata e a vantaggio del Nord) ma anche con il gettito fiscale regionale. Usare le tasse dei veneti per finanziare gli ospedali veneti significherà meno risorse per gli ospedali del resto d’Italia. E lo stesso discorso vale per le altre regioni e per le altre funzioni che saranno delegate dallo Stato, in forza dell’autonomia differenziata.
“L’Italia è finita - ha scritto recentemente Pino Aprile sul Corriere della Sera -. Un Paese esiste se, nell’equilibrio mondiale, ha un ruolo e relazioni forti; se chi lo abita lo vuole tale, figlio della sua storia, custode del territorio; se i suoi abitanti si sono reciprocamente scelti o accettati.”
Nonostante l’ottimismo ostentato da Silvana Saturno, sono proprio i dati che affiorano dal rapporto a certificare il fallimento definitivo del Mezzogiorno e, con esso, dell’Italia. Con la sola eccezione di Imperia, sono tutte meridionali le altre 22 province della zona blu, che indica quelle in cui la qualità della vita è insufficiente.
Il solo elemento positivo rispetto al rapporto dello scorso anno è l’allargamento dell’area rossa (in cui la qualità della vita è soltanto “scarsa” ma non “insufficiente”) rispetto a quella blu. Ma è una ben magra soddisfazione, anche perché dall’indagine affiora un dato che sembra sfuggito anche ai più attenti osservatori: lo stato comatoso in cui versano le grandi città meridionali, ovvero i poli che secondo l’economista Gianfranco Viesti (promotore assieme ad Aprile della grande petizione on line con cui 13.000 tra docenti, intellettuali, dirigenti sindacali e semplici cittadini hanno chiesto di bloccare il regionalismo differenziato) potrebbero e dovrebbe trainare il riscatto del Sud. Le grandi città meridionali, le capitali del tempo che fu, veleggiano nelle ultime posizioni della classifica: Bari al 103° posto, Palermo al 106°, Napoli al 108°, Catania al 109°, e penultimo.
Ma più delle classifica dovrebbero indurre ad un’attenta riflessione la classe dirigente del Paese i dati assoluti che si ricavano dagli indicatori del rapporto ItaliaOggi-La Sapienza. Posta uguale a 100 la qualità della vita nella provincia in cui si vive meglio (Bolzano), il punteggio di Bari è 12,4. Palermo totalizza 10,1, Napoli 5,5, Catania soltanto 2,98.
Per dirla in soldoni, a Belluno si vive dieci volte meglio che a Palermo, venti volte meglio che a Napoli, 30 volte meglio che a Catania. Sono le dimensioni nascoste, sottovalutate, taciute del divario. E pensare che c’è chi vorrebbe allargare la forbice ancora di più.
L’Italia è davvero finita.
Geppe Inserra
[La foto che illustra l’articolo, intitolata Storm Clouds Gathering è stata scattata da Zooey, ed è licenziata con Creative Commons License]
La verità è che in Italia non c’è più alcun “insieme”: si vive sempre meglio al Nord e sempre peggio al Sud. L’ottimismo del giornale è fondato sul fatto che, rispetto alla classifica 2017 tre nuove province si sono aggregate a quelle in cui la qualità della vita è risultata buona o accettabile.
Ma si omette di dire che, per quanto riguarda il Mezzogiorno, la situazione è ancora peggiorata. Se nel 2017 erano due le province che manifestavano una qualità della vita accettabile (Potenza e Matera), nel 2018 è soltanto una (Matera). Nel biennio, nessuna provincia meridionale denota una qualità della vita buona, e tutte si collocano nella fasce in cui è classificata come scarsa o insufficiente.
Basterebbe ed avanzerebbe per concludere che il divario tra Nord e Sud ha raggiunto livelli insostenibili, ma si preferisce glissare secondo il classico e sempre più collaudato meccanismo della rimozione: la questione meridionale non esiste, e punto.
Osservando la mappa del benessere disegnata dalla indagine, si ha invece la conferma più evidente della intuizione di Pino Aprile, che ha intitolato il suo ultimo libro, “L’Italia è finita”. Ormai è un luogo comune perfino l’idea dell’Italia come un paese a due velocità. Di velocità ce ne sono almeno tre: quella del ricco Nord Est, poi l’Italia che arranca, a macchia di leopardo, tra Centro e Nord, e infine il Sud, condannato alla disfatta.
L’atto finale del processo è lo scellerato regionalismo differenziato propugnato dalla Lega (e supinamente accettato dall’ala gialla del Governo). Veneto e Lombardia, e a ruota Emilia Romagna, rivendicano competenze fondamentali (tra cui sanità, istruzione, trasporti, ambiente) che propongono di finanziare non soltanto con la spesa storica (che è già di suo squilibrata e a vantaggio del Nord) ma anche con il gettito fiscale regionale. Usare le tasse dei veneti per finanziare gli ospedali veneti significherà meno risorse per gli ospedali del resto d’Italia. E lo stesso discorso vale per le altre regioni e per le altre funzioni che saranno delegate dallo Stato, in forza dell’autonomia differenziata.
“L’Italia è finita - ha scritto recentemente Pino Aprile sul Corriere della Sera -. Un Paese esiste se, nell’equilibrio mondiale, ha un ruolo e relazioni forti; se chi lo abita lo vuole tale, figlio della sua storia, custode del territorio; se i suoi abitanti si sono reciprocamente scelti o accettati.”
Nonostante l’ottimismo ostentato da Silvana Saturno, sono proprio i dati che affiorano dal rapporto a certificare il fallimento definitivo del Mezzogiorno e, con esso, dell’Italia. Con la sola eccezione di Imperia, sono tutte meridionali le altre 22 province della zona blu, che indica quelle in cui la qualità della vita è insufficiente.
Il solo elemento positivo rispetto al rapporto dello scorso anno è l’allargamento dell’area rossa (in cui la qualità della vita è soltanto “scarsa” ma non “insufficiente”) rispetto a quella blu. Ma è una ben magra soddisfazione, anche perché dall’indagine affiora un dato che sembra sfuggito anche ai più attenti osservatori: lo stato comatoso in cui versano le grandi città meridionali, ovvero i poli che secondo l’economista Gianfranco Viesti (promotore assieme ad Aprile della grande petizione on line con cui 13.000 tra docenti, intellettuali, dirigenti sindacali e semplici cittadini hanno chiesto di bloccare il regionalismo differenziato) potrebbero e dovrebbe trainare il riscatto del Sud. Le grandi città meridionali, le capitali del tempo che fu, veleggiano nelle ultime posizioni della classifica: Bari al 103° posto, Palermo al 106°, Napoli al 108°, Catania al 109°, e penultimo.
Ma più delle classifica dovrebbero indurre ad un’attenta riflessione la classe dirigente del Paese i dati assoluti che si ricavano dagli indicatori del rapporto ItaliaOggi-La Sapienza. Posta uguale a 100 la qualità della vita nella provincia in cui si vive meglio (Bolzano), il punteggio di Bari è 12,4. Palermo totalizza 10,1, Napoli 5,5, Catania soltanto 2,98.
Per dirla in soldoni, a Belluno si vive dieci volte meglio che a Palermo, venti volte meglio che a Napoli, 30 volte meglio che a Catania. Sono le dimensioni nascoste, sottovalutate, taciute del divario. E pensare che c’è chi vorrebbe allargare la forbice ancora di più.
L’Italia è davvero finita.
Geppe Inserra
[La foto che illustra l’articolo, intitolata Storm Clouds Gathering è stata scattata da Zooey, ed è licenziata con Creative Commons License]
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